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Riflessioni sulla comunicazione politica

11/02/2010

Mario Rodriguez dalle pagine del quotidiano Europa rileva come stia svanendo il confine tra propaganda e comunicazione, tra affermare slogan autoreferenziali e costruire significati condivisi. Ma la politica deve imparare a costruire una relazione autentica con i propri pubblici se non vuole ridursi a mera immagine.

di Mario Rodriguez
La politica italiana si sta avvicinando a un momento critico che, anche dal punto di vista della comunicazione, rappresenta la fine di una fase significativa. Possiamo considerare conclusa, almeno per il momento, la stagione della comunicazione politica.
Sì, sono ormai consolidati i manifesti pubblicitari negli spazi commerciali e un po’ di direct mailing.
Ci sono più innovative presenze su internet e sui social network che sono vissuti come strumenti di propaganda, non di “conversazione”. Restano e dominano soprattutto i sondaggi predittivi, il toto elezioni quotidiano e compulsivo. Ma quello che non c’è più è la tensione a capire la differenza tra propaganda e comunicazione, tra affermare slogan autoreferenziali e costruire significati condivisi. Manca lo stimolo a capire quanti e dove sono i voti che servono per vincere e soprattutto come faccio a conquistarli, ad avanzare proposte che costruiscano quel sentimento che determina il voto. Così chi con la sua esperienza nel Palazzo si era candidato a fare lo stratega della comunicazione politica si riduce a inventare gossip virale sui social network! Ma le responsabilità sono della politica non della comunicazione. Non può esserci marketing se non c’è mercato. Non può esserci comunicazione politica “di mercato” se non vi sono regole che la richiedano, che la rendano necessaria, auspicabile, utile.
Le regole del gioco che hanno sostituito l’elezione con la nomina, la scelta in un contesto ampio assimilabile ad un mercato con la scelta affidata ad un comitato ristretto, hanno decretato l’addio alla comunicazione politica e al marketing politico. L’addio (forse temporaneo) a quell’innesto fecondo di culture nate dalla pratica aziendale e di mercato nelle esperienze dell’organizzazione e della formazione del consenso.
Culture che non si esauriscono nel tentativo della “seduzione” ma individuano nella costruzione di un circuito virtuoso ascolto-interpretazione- risposta nuove capacità di soddisfare esigenze e risolvere problemi sempre più complessi. Un po’ di competizione confusa, pasticciata, caratterizzata dalla flessibile e opportunistica applicazione delle regole s’è vista in questi mesi nelle cosiddette primarie del Pd o delle coalizioni di centrosinistra.
Ma siamo al far west, si aspettano con ansia law and order! Si chiude dunque la fase apertasi all’insegna dell’americanizzazione, dell’innesto nella cultura politica delle acquisizioni maturate nell’ambito della comunicazione di mercato.
È vero che sono stati gli anni del dominio del concetto di immagine: qualcuno pensava di poter apparire ciò che si voleva, bastava, appunto, una comunicazione adeguata. Partiti, candidati, proposte politiche potevano essere presentati al “mercato elettorale” come prodotti innovativi, come si potesse partire da zero, senza alcuna persistenza di culture, tradizioni e identità. Venti anni hanno fatto giustizia di molte di queste impostazioni che comunque contenevano stimoli fecondi. Certo era difficile, in una fase dominata dall’approccio berlusconiano e dal suo uso spregiudicato e sofisticato del marketing in politica, separare da questo il contributo positivo che l’adozione di un approccio di marketing avrebbe potuto dare a tutta la politica in generale, anche a chi si opponeva a Berlusconi.
Oggi potrebbero aprirsi nuovi spazi, il concetto di immagine ha finalmente perso salienza sostituito da identità. Dall’illusione di poter determinare la propria immagine indipendentemente dal soggetto che la percepisce, dalla sua cultura, dalla sua rielaborazione cognitiva, si è passati a mettere a fuoco la questione dei tratti che identificano, che distinguono, alle loro caratteristiche permanenti nel tempo o provenienti dal passato, dalla esperienza pregressa. Il destinatario della comunicazione viene (comincia) ad essere messo a fuoco nella sua capacità di negoziare il significato.
La comunicazione sembra cominciare ad affermarsi soprattutto come una cultura piuttosto che come una serie di strumenti da applicare a discrezione della disponibilità di denaro. Ma le regole del gioco impediscono a questa acquisizione di scaricare i propri effetti positivi. E appunto senza mercato niente marketing. Senza competizione, senza contendibilità, la qualità della azione comunicativa perde utilità.
Per di più accanto a regole elettorali che non favoriscono competizione e contendibilità, si afferma un paradigma politologico fondato sull’idea che l’elettore mobile o marginale non sia più determinante.
I sondaggisti spingono in questa direzione e i politologi non li contrastano.
Se gli elettori che si muovono non sono tali da modificare i rapporti di forza, vuol dire che le azioni finalizzate al loro spostamento sono destinate a fallire, sono inefficaci e inutilmente costose. Il voto chi ce l’ha se lo tiene. Indipendentemente da come si è governato da cosa si propone, da chi si candida.
Dal capitale simbolico siamo alla rendita elettorale.
Dalla fase dell’imprenditorialità politica, del mercato, sembra esser entrati in una sorta di neo feudalesimo elettorale. E l’unica dinamica possibile è quella delle alleanze tra formazioni costituite. Reami, dinastie, matrimoni reali.
Niente più spot tv memorabili o campagne di 6×3 che fanno notizia, niente più rotocalchi sulla vita del leader o viaggi in nave inseguiti da treni e carovane di bus. Niente più evocazioni e narrazioni con lo sfondo delle colline verdi del cuore rosso d’Italia.
Niente più tentativi di conquistare elettori mobili e mercati potenziali. Spazio alle trattative, agli accordi.
L’imprenditore della politica lascia spazio al mediatore di rendite elettorali. Le alleanze dominano sulle vocazioni maggioritarie. Una comunicazione piccola accompagna una politica col fiato corto che incamera tensioni destinate a determinare effetti non chiari e forse non desiderati.
Unica eccezione, chi resta fuori da questo schema: Emma Bonino in testa, capace di mettere in campo un agire comunicativo finalizzato a costruire una relazione autentica con chi presta attenzione al suo progetto.
Tratto dal quotidiano Europa
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