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Riforma degli ordini professionali: ancora niente da fare

12/04/2005

Rimandata ancora una volta la riforma delle libere professioni invocata dall'Antitrust. In un articolo dell'Espresso e in un'intervista a Michele Vietti, si spiega molto bene quale è la posta in gioco e per quale motivo è tutto fermo da vent'anni

Da L'Espresso 7 aprile 2005Notai, avvocati, architetti... Con un orticello blindato da 45 miliardi l'anno. Che nessuno tocca. Perché valgono 3 milioni e mezzo di votidi Stefano Livadiotti
Un estenuante gioco dell'oca. Da vent'anni, quando sembra in vista del traguardo, la riforma delle libere professioni viene regolarmente rispedita ai blocchi di partenza. L'ultima volta è successo venerdì 4 marzo, quando in un vertice tra le forze di governo s'è deciso di accantonare la nuova normativa. Le lobby dei ventisette ordini professionali, che si erano messe di traverso, hanno stappato lo champagne: almeno per ora i privilegi conquistati quasi settant'anni fa, e via via cresciuti, sono salvi. Per l'ennesima volta.
La posta in palio è enorme. Secondo gli uomini dell'Antitrust, le parcelle di avvocati e farmacisti, commercialisti e geometri, ingegneri e ostetriche, tutte insieme fanno il 3,3 per cento del prodotto interno lordo nazionale. Vuol dire qualcosa come 45 miliardi di euro. Un gruzzolo che la 'casta' dei professionisti italiani non ha alcuna intenzione di rimettere in gioco affrontando la concorrenza su un mercato libero. Le munizioni per difendere l'orticello, del resto, non le mancano davvero.
Gli iscritti agli ordini sono più di un milione e 700 mila. E siccome sono tutti maggiorenni rappresentano altrettante schede elettorali. Ma non basta. In un minaccioso comunicato diffuso la scorsa primavera al termine di un convegno affollato da politici d'ogni razza e colore, il Comitato unitario degli ordini ha messo nel conto delle persone cui dà voce anche 900 mila praticanti e un milione di dipendenti degli studi professionali. Senza contare le famiglie dei loro iscritti, gli ordini dispongono dunque di un pacchetto di mischia teorico di oltre 3 milioni e mezzo di voti. Che trova riscontro in una formidabile rappresentanza parlamentare. Su 945 tra deputati e senatori, 285 vengono dal mondo delle professioni. Nelle assemblee di Montecitorio e Palazzo Madama raggiungono il 39,1 per cento dei voti. E all'interno del centrodestra sfiorano addirittura la maggioranza assoluta, attestandosi a quota 49 per cento (non a caso il programma di Berlusconi prevedeva esplicitamente la salvaguardia degli ordini). La legione più agguerrita è quella degli avvocati: solo alla Camera se ne possono contare 29 nelle fila di Forza Italia, 18 con An, 8 con l'Udc, 5 nei Democratici di sinistra, 11 nella Margherita, uno nei Verdi e nel Prc e 2 perfino nel Südtiroler Volkspartei. La dimostrazione della loro forza sta in un fatto semplice: la supervisione sulla riforma non è stata affidata al ministero delle Attività Produttive, come sarebbe stato naturale, ma al Guardasigilli. La volpe nel pollaio.
Nessun partito politico sarebbe così temerario da sfidare una simile massa d'urto elettorale. Tanto meno quando le urne sono vicine. Così, nei giorni scorsi la sesta versione della riforma messa nero su bianco negli ultimi tre anni ha conosciuto un epilogo paradossale. Il testo del ministro della Giustizia Roberto Castelli, che pure alla casta dei professionisti faceva solo il solletico, è tornato nel cassetto. Tranne per una minima parte. Quella cioé che garantisce l'esistente: la sopravvivenza degli attuali ordini (e addirittura la possibilità di crearne di nuovi). Come se non bastasse, e con una logica imperscrutabile, un provvedimento che penalizza le imprese è stato inserito proprio nel pacchetto per la competitività.
Così la riserva di caccia dei professionisti italiani, intorno alla quale prospera un apparato burocratico che è arrivato a contare 1.800 uffici (ma quanti siano i dipendenti nessuno lo sa), continua a essere ben presidiata. Grazie a meccanismi che hanno indotto gli ex presidenti dell'Antitrust Giuliano Amato e Giuseppe Tesauro a parlare di un "mondo medioevale". Dove il tirocinio spesso si trasforma in occasione di sfruttamento del lavoro. Con la barriera all'ingresso dell'esame di Stato saldamente in mano alle categorie, che fanno la parte del leone all'interno delle commissioni giudicatrici. Con il meccanismo delle tariffe minime da applicare alla clientela (vietato in Francia, più di vent'anni fa, dalla Commission de la Concurrence et des Prix) e gli anacronistici divieti alla pubblicità che impediscono agli ultimi arrivati anche solo di tentare di aprirsi un varco nel mercato. "È possibile che sotto la veste dell'interesse pubblico", si legge in un documento dell'Antitrust, "si persegua la tutela di interessi privati meramente contingenti e di breve respiro, che si traducono in uno svantaggio per la collettività". Come dire: in origine l'ordine doveva essere il garante della professionalità dei suoi iscritti; ora lo è dei loro redditi.
La presenza degli ordini è forte in molti paesi europei. In Italia di più. Lo dice uno studio elaborato dall'Institut für Höhere Studien per conto della Direzione Generale Concorrenza della Commissione Europea. Gli analisti austriaci hanno messo a punto un indice generale di regolamentazione delle professioni (più il numero è alto, maggiore è l'ingessatura del sistema) che tiene conto delle barriere di accesso (diploma, praticantato, esami) e dei paletti sulla condotta professionale (obblighi tariffari, soprattutto). I dati parlano chiaro. Per gli ingegneri italiani l'indice è pari a 6,4. Per quelli inglesi, svedesi, francesi, danesi e irlandesi sta a zero. Per gli architetti siamo a quota 6,2. Quelli inglesi, olandesi, svedesi, irlandesi e danesi stanno di nuovo a zero, mentre i francesi si fermano comunque a 3,1 e i tedeschi a 4,5. Nelle professioni legali l'indice italiano è 6,4, contro il 4 netto della Gran Bretagna. In quelle contabili siamo al 5,1, contro il 3 della Gran Bretagna. Ma la palma della categoria più blindata va ai farmacisti (secondi in Europa solo agli avvocati greci), che arrivano a 8,4: la normativa del settore è due volte più rigida di quella inglese (4,1) e quasi il triplo di quella olandese (3). "Tra i paesi con un'elevata regolamentazione per tutte le professioni", è la conclusione dei ricercatori viennesi, "figurano l'Austria, l'Italia e il Lussemburgo".
I risultati si vedono. Eccome. "In Italia la probabilità di fare il lavoratore autonomo cresce del 6 per cento se si è figli di lavoratori autonomi", ha rivelato l'economista e deputato ds Nicola Rossi nel libro 'Meno ai padri più ai figli'. E che il mondo delle professioni sia chiuso a doppia mandata e funzioni quasi in base a un principio di ereditarietà lo conferma un'elaborazione dell'indagine sulle famiglie italiane effettuata da Antonio Schizzerotto, professore di sociologia generale alla Bicocca di Milano. I dati dicono che il 10,6 per cento dei figli di liberi professionisti segue le orme dei genitori. Solo l'1,1 per cento dei figli di operai riesce invece a varcare le soglie del mondo delle professioni. Se il ponte levatoio è alzato per i giovani italiani, figuriamoci per gli stranieri di ogni età. Secondo il censimento svolto nel febbraio 2004 dal Council of the bars and law societies of the European Union (l'organismo internazionale degli ordini legali) dei 150 mila avvocati che lavorano i Italia solo poco più di 50 sono stranieri. Uno su tremila.
Al riparo da ogni forma di concorrenza, e beneficiati da rendite stabilite addirittura per legge (fino a ieri i notai si mettevano in tasca qualcosa come 120 milioni di euro l'anno solo grazie all'esclusiva sulla certificazione dei dati delle automobili iscritte al pubblico registro), i professionisti italiani hanno finito per perdere efficienza. In base ai calcoli dell'Antitrust, l'impegno finanziario per i servizi professionali incide in media per il 6 per cento (con picchi del 9) sui costi complessivi delle imprese che esportano. La campagna portata avanti dall'ex commissario europeo alla Concorrenza Mario Monti non ha superato il muro di gomma delle lobby. E non ha incontrato miglior fortuna la proposta di direttiva per la liberalizzazione dei servizi su scala europea elaborata dall'allora commissario Frits Bolkestein: dopo la levata di scudi dell'Europarlamento, ci sta rimettendo le mani il successore Charlie McCreevy.
Ma le barriere poste dai professionisti italiani intorno al loro business non potranno reggere in eterno. I più forti si stanno organizzando. Le grandi aziende hanno cominciato a guardare sempre più spesso oltre confine. Secondo i dati della Federazione del terziario avanzato della Confindustria, l'Italia è tra i pochi paesi europei che importano più servizi professionali di quanti ne esportino. Nel 2003 il deficit commerciale è arrivato a 3.712 milioni di euro. E questa volta non si può davvero dare la colpa ai soliti cinesi. 
'C'è una sponda tra An e Lega'Secondo Vietti (Udc) la riforma non decolla per veti politici  
Gli ostacoli? Più politici che corporativi. L'onorevole Michele Vietti, sottosegretario alla Giustizia in quota Udc, da bravo avvocato prova a ribaltare l'ipotesi accusatoria corrente. Ovvero, che a sabotare la riforma delle professioni sia stata la potente lobby delle professioni. E spiega che il tempo per approvarla entro questa legislatura c'è ancora.
Ma la riforma non era una delle novità care a Silvio Berlusconi?"Assolutamente sì. E ancora nei giorni scorsi mi ha confermato che la vuole".
Sarà, ma l'unico colpo che siete riusciti a mettere a segno finora è stato un graffietto ai notai sui passaggi di proprietà delle auto..."In realtà, proprio nel decreto sulla competitività si può ancora inserire una delega legislativa per la riforma delle professioni. Lo schema c'è già e il consenso anche".
E che cosa prevede?"Marcia su un doppio binario. Il primo è quello degli ordini professionali esistenti: introduce novità come il tirocinio all'estero, la formazione permamente, più garanzie nei procedimenti disciplinari, la possibilità di fare pubblicità positiva, l'assicurazione obbligatoria e tariffari più realistici. Il secondo riguarda le nuove professioni, come i consulenti informatici, e si basa su uno scambio: lo Stato riconosce le associazioni, ma chiede loro di assicurare standard minimi di qualità delle prestazioni, a tutela dei consumatori".
Ma la 'Vietti-bis' è naufragata in autunno. Perché?"C'era ormai un largo consenso degli Ordini e delle nuove professioni. Poi, all'interno di queste ultime, c'è stata una frattura e alcuni hanno cercato una sponda in Alleanza nazionale e nella Lega".
E l'hanno trovata?"Sì, perché si tratta di cinque milioni di voti potenziali e ogni partito vuole atteggiarsi a loro garante. Ma a me che la riforma porti il mio nome non importa assolutamente nulla. Basta che si faccia, perché il sistema Italia ne ha bisogno. E sono convinto che il premier la pensi come me".
F.B.
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