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Rivoluzioni e politica 2.0

20/03/2012

Ad un anno dalla _Primavera Araba, Andrea Ferrazzi_ commenta il saggio di _Wael Ghonim,_ uno dei protagonisti della rivoluzione egiziana. Con Internet “non è più tempo di eroi e non serve un leader perché un’iniziativa si diffonda”. Ma davvero questi movimenti aiutano la democrazia a diffondersi?

di Andrea Ferrazzi
“Il potere delle persone sarà sempre più forte delle persone al potere”. Si chiude con queste parole il bellissimo Rivoluzione 2.0, scritto da Wael Ghonim, il manager di Google che è stato uno dei grandi protagonisti della rivoluzione egiziana del 2011, tanto da essere incoronato da Time persona più influente dello scorso anno. Il suo libro autobiografico è avvincente come un thriller politico, interessante come un saggio di comunicazione politica e commovente come solo i romanzi che raccontano una grande storia sanno essere.
Il blogger che ha propiziato la rivolta di piazza Tahrir ripercorre gli avvenimenti che hanno cambiato l’Egitto, al termine di una “rivoluzione rivoluzionaria” che in un primo momento si è organizzata sulla piazza virtuale dei social network per poi trasferirsi nel mondo reale, dove l’odore del sangue e il dolore della morte è lo stesso di sempre. Una “rivoluzione 2.0”, come recita il titolo del saggio. Una rivoluzione, cioè, “senza eroi”, dove “tutti sono stati eroi”.
“In passato – scrive Wael Ghonim – le rivoluzioni sono state quasi sempre guidate da leader carismatici avvezzi a tutte le astuzie della politica, spesso addirittura da geni militari. Sono quelle che io chiamo rivoluzioni modello 1.0. Quella egiziana, però, è stata differente: è stata davvero un movimento spontaneo, e a guidarla era solo ed esclusivamente la saggezza della folla”. E dire che, inizialmente, anche Wael Ghonim, uno che di politica non si era mai occupato ma che vedeva crescere in sé la voglia di cambiare il suo paese, pensa di riporre la sua fiducia in un leader. In un salvatore della patria da contrapporre a Hosni Mubarak: Mohamed Mostafa ElBaradei, già presidente dell’agenzia internazionale per l’energia atomica dell’Onu. Personalità riconosciuta e apprezzata a livello internazionale.
A lui il blogger egiziano dedica una pagina su Facebook, iniziando a lavorare per il cambiamento. “A quell’epoca – ricorda – difendere un’idea voleva dire appoggiare l’individuo che la incarnava”. O, almeno, così credeva.
La svolta avviene nel giugno del 2010, quando su Internet si diffondono le immagini di Khaled Mohamed Said, pestato a morte da due agenti della polizia di Alessandria. Immagini terribili, uno schiaffo alle coscienze dei giovani egiziani. Ghonim decide di aprire una nuova pagina su Facebook: Kullena Khaled Said, siamo tutti Khaled Said. Il successo è immediato. La rete sfida il regime e i suoi mezzi di distrazione di massa. Ghonim posta un messaggio chiaro: “Facebook si è trasformato nello strumento che ci permette di esprimere le nostre opinioni, le nostre ambizioni e i nostri sogni senza sottostare a pressioni di sorta… Ormai il nostro messaggio può competere, per diffusione, con i giornali di regime”. E’ la svolta. E’ la scintilla che incendia gli animi e che provoca il fuoco del cambiamento tra i giovani egiziani. Il regime tenta goffamente di reagire.
Un episodio, tra i tanti, è emblematico di quel che accade nel paese, anzi in tutto il mondo arabo. Sì, perché un ulteriore impulso al cambiamento arriva dalla Tunisia. Con la rivoluzione che porta alle dimissioni di Ben Ali. In Egitto i media tentano di sminuire la portata di quell’evento che porterà a una destabilizzazione di tutta l’area. Ma sulla rete le versioni ufficiali vengono sbugiardate. “Quasi tutti i provvedimenti del regime sortivano nel nostro mondo virtuale l’effetto contrario a quello desiderato”, ricorda il blogger.
La rete non conosce censure. Anima e promuove iniziative reali. Proteste che crescono e si autoalimentano. Manifestazioni che coinvolgono sempre più persone. Tra il regime e i rivoluzionari lo scontro è totale e si combatte tanto sul piano della comunicazione, quanto su quello della repressione. Ne fa le spese anche Wael Ghonim, arrestato dalla polizia segreta. I ricordi di quei giorni sono terribili e commoventi al tempo stesso.
Ormai, però, la piazza virtuale e quella reale si sono fuse in un unico movimento. La rabbia contro il regime è un fiume in piena che travolge tutto. L’epilogo lo conosciamo. “Qualcosa è cambiato per sempre – sostiene l’autore – ed è un cambiamento che non riguarda soltanto il nostro paese e la nostra rivoluzione (…) Ora che un numero così alto di persone può comunicare così facilmente, il mondo è diventato un posto molto meno accogliente per i regimi autoritari. L’umanità sarà sempre afflitta da uomini assetati di potere, e non è detto che lo stato di diritto e la giustizia fioriranno sempre e comunque in ogni luogo. Ma grazie alla moderna tecnologia, la democrazia partecipativa sta diventando una realtà. I governi faticano sempre di più a isolare i cittadini, censurare le informazioni, tenere nascosta la corruzione e nutrire una popolazione passiva di messaggi propagandistici. A poco a poco, inesorabilmente, le armi di oppressione di massa si stanno estinguendo”.
E’ così? Analizzando i movimenti di protesta da piazza Tahir a Times Square, il sociologo Manuel Castells dà ragione a Wael Ghonim: non è più tempo d’eroi. “Il punto – dice – è che non c’è bisogno di leader perché un’iniziativa su Internet si diffonda, e chiunque può unirsi e aggiungere farina del suo sacco. Se ci fosse un comitato direttivo globale, solo piccoli gruppi di militanti parteciperebbero: oggi possiamo parlare di un nuovo movimento globale proprio perché non c’è una leadership o un’ideologia unica e perché Internet è una piattaforma flessibile per diffondere le iniziative, discutere le idee e coordinare le azioni”. E aggiunge: “I movimenti cambiano la mentalità delle persone e i valori della società, sono fonti di creazione e di cambiamento sociale. I partiti lavorano su quello che succede per gestire le istituzioni che reggono la vita sociale. Quando le istituzioni funzionano bene, sembra che il potere sia dei partiti e che tutto dipenda dai risultati elettorali. Ma quando aumenta la distanza tra i rappresentanti e i rappresentati, quando il modello economico, ambientale, previdenziale o di vita entra in crisi, allora i movimenti diventano una fonte di rinnovamento, l’unico antidoto contro la sclerosi di una politica sottomessa alle forze irrazionali del mercato e a quelle razionali dell’avidità”.
Ma siamo sicuri che questi movimenti aiutino la democrazia a rigenerarsi? Siamo davvero sicuri che, delegittimando la classe politica, non finiscano anche per erodere la fiducia dei cittadini verso le istituzioni democratiche? Siamo davvero sicuri che il “movimentismo 2.0” non contribuisca a peggiorare le condizioni di salute di quel malato che si propone di curare?
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