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Scienze della Comunicazione: i falsi miti da sfatare

09/01/2012

Un corso di laurea facile, tendenzialmente inutile, che di certo offre solo la disoccupazione. Solo alcuni dei miti che da anni circolano sulle facoltà di comunicazione che, nonostante ciò continuano ad attrarre i giovani. Miti falsi ma soprattutto pericoli se sostenuti da politici e giornalisti. Dati alla mano, _Giovanna Cosenza_ fornisce un’analisi puntuale della situazione in Italia, evidenziando come questi pregiudizi non facciano altro che alimentare precariato e bassi stipendi. Oltre a penalizzare la cultura della comunicazione.

di Giovanna Cosenza
In Italia i pregiudizi negativi sui corsi di laurea in scienze della comunicazione esistono da anni: laurea poco seria, esami facili da superare, titolo di studio svalutato sul mercato del lavoro perché le aziende si aspettano giovani impreparati o genericamente capaci di tutto e niente, che finiscono per confinare in ruoli malpagati e secondari. Insomma le battutacce su «scienze delle merendine», come i denigratori le chiamano, affliggono non solo gli studenti attuali, ma pure chi la laurea ce l’ha da anni.
La cosa peggiore, per chi subisce le battutacce, è che di solito provengono da persone che di comunicazione non capiscono niente. Il che è normale, a ben pensarci: se di comunicazione almeno un po’ te ne intendi, allora sei anche consapevole dell’importanza che ha per qualunque ambito professionale, e tutto faresti meno che denigrare chi ha studiato o studia per farla. Le uscite peggiori, nel 2011, sono venute dalla politica. Due esempi per tutti.
Gennaio 2011: a «Ballarò» il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, nel difendere la riforma della scuola, dice di aver voluto dare «peso specifico all’istruzione tecnica e all’istruzione professionale», perché ritiene che «piuttosto che tanti corsi di laurea inutili in Scienze delle comunicazion-i [sic] o in altre amenità, servano profili tecnici competenti che incontrino l’interesse del mercato del lavoro». Infatti, aggiunge, i corsi in «scienze delle comunicazioni non aiutano a trovare lavoro», perché «purtroppo sono più richieste lauree di tipo scientifico, lauree che in qualche modo servono all’impresa». E «questi sono i dati», conclude Gelmini.
Ottobre 2011: il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, parlando prima a «Porta e Porta» e poi a «Matrix», spiega precariato e disoccupazione dicendo che «il problema dei giovani è che spesso non vengono seguiti dai genitori, che consentono loro di iscriversi a facoltà universitarie come Scienze della comunicazione». Sacconi usa cioè Scienze della comunicazione come esempio di laurea che produce precariato o, peggio, disoccupazione protratta. E non è la prima volta: l’aveva già fatto nell’agosto 2008, in un’intervista su L’Espresso.
Che i politici italiani alimentino i pregiudizi contro le lauree in comunicazione non mi stupisce più di tanto: poiché in Italia la politica – a destra come a sinistra – ha raggiunto negli ultimi anni i livelli più bassi anche nella comunicazione, oltre che nei contenuti e nelle azioni, i politici rientrano nel novero di coloro che sottovalutano il settore perché non lo conoscono. Che però i giornalisti riproducano gli stessi pregiudizi già mi stupisce di più, visto che non solo di comunicazione dovrebbero saperne, ma di comunicazione vivono.
Eppure nel 2009 Bruno Vespa si permise di chiudere una puntata di «Porta a Porta» addirittura «pregando» (sic) i giovani di non iscriversi a Scienze della comunicazione, e cioè di «non fare questo tragico errore che paghereste per il resto della vita». E commenti del genere, più o men pesanti, compaiono a cadenze quasi regolari su tutti i media.
Detto questo, l’ignoranza è certamente più grave nel caso dei ministri, perché un ministro dell’istruzione e uno del lavoro dovrebbero conoscere bene ciò su cui non solo rilasciano dichiarazioni ma prendono decisioni. Specie se concludono dicendo, come ha fatto Gelmini: «E questi sono i dati».
I dati infatti non dicono che il mercato del lavoro non assorba laureati in Scienze della comunicazione. Dicono altro. Secondo il consorzio interuniversitario Almalaurea, sostenuto dallo stesso Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica, consorzio che oggi elabora e rende disponibili sul web dati che riguardano il 78% dei laureati italiani, nel 2010 i laureati triennali in Scienze della comunicazione, a un anno dalla laurea, non lavoravano meno degli altri, anzi: il 46,5% di loro lavorava, a fronte del 46% dei laureati triennali di tutti i tipi di corsi, e di un 41,8% di laureati triennali usciti dalle facoltà di Lettere e filosofia, a cui in molti atenei appartiene Scienze della comunicazione. Il che vuol dire che nel 2010, in piena crisi economica, i neolaureati in comunicazione lavoravano un po’ più degli altri (uno 0,5% in più) e ben più dei loro colleghi umanisti (4,2 punti percentuali in più).
Se poi prendiamo le lauree magistrali del settore della comunicazione e le confrontiamo con tutte le altre, otteniamo una perfetta parità: a un anno dalla laurea, nel 2010 già lavorava il 55% dei giovani che avevano preso una magistrale nella classe «scienze della comunicazione pubblica, d’impresa e pubblicità», esattamente come già lavorava il 55% dei laureati in tutti gli altri corsi. E se confrontiamo questi dati con quelli dei giovani usciti dalle facoltà di Lettere e filosofia, scopriamo ancora una volta che i comunicatori se la passano meglio di altri umanisti, i quali, a un anno dalla laurea, nel 2010 lavoravano solo nel 53% dei casi.
Ma andiamo a spulciare anche il cosiddetto «profilo» dei laureati che la banca dati di Almalaurea mette a disposizione sul web, giusto per capire se la nomea di «laurea facile» e «poco seria» ha qualche fondamento nei numeri.
Con un paio di clic scopriamo per esempio che i giovani che nel 2010 hanno conseguito una triennale in Scienze della comunicazione hanno preso in media 100 come punteggio di laurea, mentre gli altri laureati italiani hanno preso 100,6; e scopriamo inoltre che, sempre lo stesso anno, la media di voti negli esami è stata 25,9 per i laureati triennali in comunicazione e 25,8 per tutti gli altri. Inoltre, con altri due clic scopriamo che nel 2010 i laureati magistrali in comunicazione hanno preso in media 27,4 agli esami e 106,5 alla laurea, mentre gli altri hanno preso 27,6 agli esami e 108,1 alla laurea.
Questi dati credo possano contribuire a sfatare l’idea che a comunicazione si «regalino i voti», visto che i voti di comunicazione sono allineati a quelli delle altre lauree nel caso dei trienni e addirittura più bassi nelle magistrali. Certo, i numeri possono sempre essere interpretati in modo diverso: un voto più basso può voler dire che l’esame è più difficile, come pure che lo studente è più zuccone. Ma poiché non c’è niente, se non il pregiudizio, a far propendere per un’interpretazione o l’altra di un voto, e poiché il pregiudizio sulle lauree in comunicazione è che i voti siano più alti lì che per esempio a Ingegneria o Fisica, solo perché gli esami sono più facili e non perché gli studenti siano più bravi, è doveroso leggere queste medie, per par condicio, semplicemente ribaltando il pregiudizio, e non decidendo all’improvviso che a un voto più basso corrisponda uno studente più zuccone e non un esame più duro.
Insomma, che i laureati in comunicazione siano meno richiesti dal mercato è pregiudizio, non realtà confermata dai numeri; che le lauree nel settore della comunicazione siano più facili è pure pregiudizio. Ma che il mercato del lavoro valorizzi meno i laureati in comunicazione degli altri non è pregiudizio: è realtà.
Se cerchiamo infatti dati sugli stipendi, Almalaurea ci dice che, a un anno dalla laurea, nel 2010 i laureati triennali in Scienze della comunicazione prendevano in media 879 euro netti al mese, mentre tutti gli altri ne prendevano in media 967; e dice che i laureati magistrali in comunicazione prendevano in media 904 euro netti mensili (addirittura meno dei triennali di altri settori), mentre gli altri ne prendevano 1051.
Se infine consideriamo il problema della precarietà, il quadro è ancora una volta svantaggioso per i comunicatori: nel 2010, a un anno dalla laurea, avevano un lavoro stabile solo il 32,9% dei laureati triennali in Scienze della comunicazione, contro il 38,2% di tutti gli altri, e solo il 25,1% dei laureati magistrali nel settore della comunicazione, contro il 33,9% di tutti gli altri.
Insomma, stando ai numeri, la differenza fra un/a laureato/a in comunicazione e uno/a di altre discipline sta soprattutto nella maggiore precarietà e nello stipendio più basso: da 88 a 147 euro netti al mese in meno per i comunicatori, in un momento in cui, data la crisi, gli stipendi sono già bassi per tutti.
E allora, cosa dobbiamo concludere? È forse questo il nucleo di verità che ha indotto Bruno Vespa a parlare di Scienze della comunicazione come di un «tragico errore» di cui pentirsi per tutta la vita?
I problemi ci sono, inutile negarlo. Ma non è dicendo ai giovani di evitare come la peste i corsi di comunicazione che si risolvono, specie in un paese come il nostro, in cui la cultura della comunicazione è scarsa in tutti i settori professionali: campagne pubblicitarie banali e volgari, comunicazione sociale inefficace, televisione urlata e politici incapaci di rivolgersi ai cittadini in modo convincente ci mostrano tutti i giorni quanto in basso sia scesa la comunicazione in Italia. Di bravi e qualificati comunicatori il nostro paese avrebbe un disperato bisogno, altro che. Se solo, ovviamente, il mercato non fosse a sua volta condizionato dai pregiudizi di cui stiamo parlando.
È infatti da oltre dieci anni che gli studenti e i laureati in comunicazione sopportano battutine sul loro conto e uscite come quelle degli ex ministri Gelmini e Sacconi: non possiamo pensare che tutto ciò non influisca sulla decisione delle imprese riguardo a stipendi e stabilizzazione del lavoro. È anche a causa di questi pregiudizi infatti che, se un’azienda fa un colloquio a un neolaureato in ingegneria bravo e uno in comunicazione altrettanto (o più) bravo, decide quasi per automatismo di pagarlo meno: l’ingegnere vale di più a priori, non perché «serve di più» all’azienda.
La stessa cosa accade quando un’impresa deve decidere di stabilizzare due precari: a parità di condizioni, si stabilizza prima l’ingegnere (l’informatico, ecc.) perché «altrimenti scappa». È la somma di decisioni come queste che un po’ alla volta ha creato un mercato di stipendi più bassi e di precarizzazioni più frequenti per i laureati in comunicazione. E il circolo vizioso è ormai chiuso.
Un circolo vizioso che sarebbe ora di rompere, una buona volta. Restituendo dignità alle professioni della comunicazione, a partire da come se ne parla. Facendo sempre considerazioni basate su dati e non su stereotipi, pur consapevoli che i dati vanno letti con attenzione e possono essere variamente interpretati. E cominciando a fare tutte queste cose proprio sui media – televisione, stampa, radio, internet – visto che, come dicevo, non si vede perché gli operatori della comunicazione debbano continuare a sminuire ciò che gli dà mangiare.
Tratto da Linkiesta
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