Dal Sole 24 Ore - domenica 6 marzo 2005Capitale umano femminile e sfide del paese Recentemente, gli interventi in tema di declino economico del nostro paese e il dibattito su come rilanciare la competitività, sono diventati materia quotidiana di confronto. Non vi è conferenza, analisi o dibattito che non includa una disamina del gap che ci separa non solo dagli Usa ma anche dal resto d'Europa, si tratti di tasso di crescita, competitività industriale, innovazione tecnologica, prestazioni del settore pubblico, sviluppo del sistema finanziario, infrastrutture, capacità di programmazione, e via dicendo.Tra i motivi che concorrono al preoccupante declino del sistema Italia vi è l'insufficienza di capitale umano, come sottolineato da Faini in questo giornale giovedì e cioè l'incapacità di attrarre, formare e sviluppare talenti, risorse umane con diverse competenze, capaci di fare la differenza in ogni area economica, dall'industria, ai servizi, alla scuola, alla ricerca scientifica. L'Italia è una gran produttrice di creatività, talento e flessibilità ma queste risorse, forse parte del nostro stesso Dna, non riescono a essere coltivate e incanalate nella direzione auspicabile ai fini della creazione di vantaggi competitivi sostenibili e, in ultima analisi, del bene collettivo.Tuttavia, in questo dibattito vi è una dimensione importante che tende a essere ignorata nonostante la sua rilevanza: il ruolo ancora marginale che le donne hanno nell'economia e nella leadership del paese. I dati del nostro paese sono disarmanti e, ancor più disarmante, è la scarsa attenzione che il sistema in generale vi dedica. Il tasso di occupazione femminile Italiano è tra i più bassi al mondo, meno del 40% (36.8%) della popolazione femminile in età lavorativa si "presenta" sul mercato del lavoro, cioè partecipa alla produzione di beni e servizi. Si tratta del trentaduesimo posto al mondo. La media europea di occupazione femminile è il 55,6%, in Svezia è il 72,2%, in UK il 65,3%, in Francia il 56,7%. Negli Stati Uniti la situazione è diversa alla base, ma analoga al vertice. In altre parole, mentre la forza lavoro femminile complessiva è pari al 49%, scende drasticamente al 15.7% a livello di corporate officers per ridursi ulteriormente al 7.9% e 5.2 rispettivamente, per le posizioni di senior management e quelle di leadership tra le principale aziende americane. In Italia non solo le donne lavorano poco, ma quando lo fanno non riescono a raggiungere posizioni di rilievo: la percentuale delle dirigenti d'impresa non raggiunge il 5%, le donne che siedono nei CDA delle società quotate si contano su due mani. Le lavoratrici italiane percepiscono in media un reddito stimato inferiore, tra il 10% e il 30%, a quello dei lavoratori, per lo più dovuto al minor livello di qualificazione delle posizioni occupate. Se passiamo alla politica il quadro è ancora peggiore: le donne in Parlamento non superano il 13%, contro il 42% della Svezia e il 30% dell'India. Ci si potrebbe domandare se le donne italiane preferiscano fare le casalinghe e non investire nella propria educazione e formazione professionale per scelta deliberata. Le cose non stanno così. L'Italia mantiene da anni un tasso di natalità tra i più bassi al mondo: 1.24 figli per donna contro i 2.06 degli USA e l'1,47 dell'Europa. Non è quindi la scelta di dedizione alla famiglia e alla cura dei figli che può spiegare la scarsa partecipazione al mondo del lavoro.Tra le 5 barriere all'avanzamento di carriera rilevate negli Stati Uniti vi sono nell'ordine: gli stereotipi e i preconcetti sulle capacità e i ruoli delle donne, l'assenza di modelli femminili di successo di riferimento, la scarsa esperienza in ruoli di leadership di linea, l'impegno familiare, le responsabilità personali e, infine, l'assenza di "mentoring".Ma vediamo la formazione scolastica: le donne italiane da anni hanno superato per istruzione e performance scolastica gli uomini. Su 1000 donne con licenza media 694 conseguono la maturità, mentre fra gli uomini solo 566. All'università le donne non solo rappresentano il 56% del totale ma, soprattutto, conseguono risultati migliori. Il 55% dei laureati con votazioni superiori al 106/110 sono donne. Le donne che si laureano con 110 e lode sono il 26.9%, gli uomini il 17.7%. E il fenomeno non riguarda solo le facoltà tradizionalmente considerate più "femminili" (sic!), tra i laureati in ingegneria che conseguono 110 e lode il 24.8% sono donne, contro il 13.6% degli uomini. I dati sembrano quindi indicarci che risorse femminili eccellenti si formano nelle nostre scuole, anche in facoltà scientifiche cruciali per il sistema economico, ma non si canalizzano in occupazione produttiva che salga man mano nella gerarchia e nella qualificazione aziendale. E' evidente, quindi, che molte risorse che potrebbero colmare parte dei nostri gap di capitale umano rimangono inutilizzate. Molte donne entrano nel mercato del lavoro, perseguono carriere ambiziose e raggiungono successi ma poi escono o rinunciano.Cosa significa questa perdita per il Paese? Qui le osservazioni possono essere di due tipi. Dal punto di vista sociale e politico è evidente che le pari opportunità sono lontane dall'essere state raggiunte. Meccanismi di discriminazione ed esclusione fanno sì che le donne partecipino minimamente alla leadership del Paese, non influenzando con la propria specificità di genere le decisioni che le riguardano come donne e come cittadine. Ma per restare su un piano puramente economico, la perdita non è da meno: le risorse femminili rappresentano un pool di competenze che potrebbe fare una differenza per molte aziende e istituzioni.Questo lo hanno già capito molte società multinazionali che hanno attivato da anni veri e propri programmi di qualità per le proprie risorse umane e soprattutto per i cosiddetti high potentials. In questa categoria, in particolare, rientrano i programmi di analisi e sostegno da parte di imprese "intelligenti" che, non volendo disperdere un capitale così importante, hanno attivato notevoli investimenti in ricerca, analisi e infrastrutture interne. Tra queste imprese possiamo citare Accenture, AT.Kearney, McGraw-Hill, Woolwich, IBM; su indicazione internazionale conducono anche nei vari mercati europei gli stessi programmi di valorizzazione di leadership di genere. Si tratta però di aziende straniere, che adattano in Italia programmi legati alla consapevolezza del valore della leadership al femminile su input delle sedi centrali che hanno maturato esperienze simili all'estero. In Italia invece solo pochissime aziende leader stanno timidamente iniziando i primi passi in questa direzione.Negli USA la valorizzazione delle diversità, in particolare quella di genere, rappresenta da anni una leva competitiva che le aziende promuovono attivamente con una serie di iniziative mirate ad aumentare la presenza femminile nel management e a valorizzarne la leadership. In un contesto competitivo in cui l'eccellenza e il capitale umano rappresentano fattori cruciali di innovazione e crescita, la diversità viene vista come un fattore fondamentale di successo. La diversità di genere arricchisce le organizzazioni in diversi modi: favorendo l'utilizzo di skills e competenze diverse, promovendo creatività e modi di pensare innovativi, rispondendo a fasce di mercato e nuovi consumatori, liberando potenziale inespresso, valorizzando modi diversi di fare impresa e di gestire i team.La valorizzazione delle risorse femminili passa anche per un'organizzazione più flessibile del lavoro, che tiene conto della conciliazione e condivisione di compiti piuttosto che di una rigida ripartizione dei ruoli. Creare un ambiente di lavoro più orientato alla realizzazione professionale e personale al tempo stesso, significa motivare a performance più elevate e fidelizzare i talenti migliori, questo sia per le risorse femminili ma anche per quelle maschili. Autorevoli ricerche americane hanno dimostrato che le società con la più alta percentuale di donne al vertice hanno prodotto risultati finanziari migliori del 35% sul Return On Equity (ROE) e del 34% sul Return to Shareholders (TRS), per non contare i benefici intangibili. Per tutti gli stakeholders. Purtroppo, di tutto ciò in Italia si parla molto poco e per lo più in ristretti circoli frequentati da aziende multinazionali e da poche donne manager che vivono sulla loro pelle la difficoltà di emergere. Eppure non sono pochi gli esempi nel mondo di donne che hanno raggiunto posizioni di leadership sulla base esclusiva dei loro meriti, in campo politico, giornalistico e di business. Un messaggio per le giovani risorse con un alto potenziale.Forse un motivo della nostra disattenzione per le eccellenze femminili risiede nella scarsa cultura del merito del Paese? La logica della cooptazione, il permanere di strutture fortemente gerarchiche, la responsabilità gestita come occupazione ed esercizio di potere mal si combinano con la competenza, il merito e il desiderio di crescere e mettersi in gioco. Forse una maggiore presenza di donne nelle nostre organizzazioni e nel loro management potrebbe favorire la rimozione di queste consolidate sclerosi e iniettare una cultura del fare più innovativa e orientata ai risultati, contribuendo in tal modo a quel cambiamento di cui tutti avvertiamo un impellente bisogno.Anche molti governi hanno fatto della maggior partecipazione femminile al lavoro e alla politica un obiettivo nazionale. In Europa l'attenzione al tema è molto più viva e infatti l'agenda di Lisbona prevede tra gli obiettivi dell'Italia il raggiungimento nel 2010 di un tasso di occupazione femminile del 60%. Si tratta di un traguardo già perso, ma che dovrebbe spingere i nostri leader quanto meno ad affrontare con sistematicità le sfide che tale obiettivo richiama.Maria Pierdicchi, direttore Generale Standard&Poors, Gruppo McGraw-HillRosanna D'Antona, presidente D'Antona&Partners.Le autrici sono tra le fondatrici del Network Bellisario Milano per la valorizzazione del Management femminile nell'impresa.Un interessante articolo di Rosanna Dantona e Maria Pierdicchi sulla questione femminile ai piani alti delle organizzazioni italiane.