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Un colpo di spugna al greenwashing

25/07/2012

Le attestazioni di sostenibilità prodotte da terzi hanno un ruolo sempre più utile per confermare la veridicità delle dichiarazioni aziendali. Sebbene esistano dei margini di miglioramento il sistema di accreditamento funziona e garantisce l’imparzialità. La fotografia della situazione italiana.

di Chiara Cammarano
E’ ora di cambiare registro? Il campanello d’allarme risuona dalle pagine della testata inglese Ethical Corporation che affronta il tema delle certificazioni di sostenibilità. Lo spunto di riflessione deriva dal fatto che lo scorso gennaio l’industria della pesca del salmone che opera in Alaska, una delle prime ad adottare lo schema Msc (Marine Stewardship Council), lo ha abbandonato. Tra le motivazioni principali addotte a giustificazione della strana scelta spicca l’aumento delle imprese che hanno aderito allo standard, facendogli perdere il suo valore premium. A ciò si è aggiunta la considerazione che gli investimenti necessari per ottenere il rinnovo della certificazione potessero essere meglio spesi in altri modi.
Certamente il maggiore livello di maturità raggiunto nel Regno Unito dalle certificazioni determina anche una crescente necessità di superare gli standard più vecchi, ormai desueti. Ciononostante, le riflessioni proposte del magazine britannico costituiscono uno stimolo interessante anche per le imprese italiane che intendono operare in maniera sostenibile e comunicando adeguatamente. Tra le principali problematiche elencate, spicca il fatto che il sistema di certificazione vada adeguato al rapido evolversi dell’agenda alla sostenibilità. A questo si aggiunge un certo abuso di questo strumento, che comporta la tendenza ad assommare tante attestazioni differenti, per soddisfare le esigenze dei diversi stakeholder invece di puntare a una visione organica comune. Un ulteriore aspetto critico riguarda il sospetto di conflitto di interessi e quindi la mancanza di imparzialità dell’ente certificatore, pagato dalla stessa azienda che dovrebbe valutare.
Non basta quindi vantare un numero crescente di certificazioni per essere riconosciuti per il proprio impegno verso la sostenibilità. Il proliferare di nuovi loghi e dichiarazioni di vario genere, lungi dal rassicurare il consumatore, rischia di creare confusione e diffidenza.
L’attenzione non manca
Ciò non toglie, e le imprese lo sanno bene, che un prodotto che sappia evidenziare in maniera credibile una ridotta impronta socio-ambientale ha maggiori garanzie di successo. Lo confermano le indagini sul sentiment dei consumatori nostrani. L’acquisto di prodotti che attestino il loro basso impatto sull’ambiente rappresenta una delle azioni ritenute più importanti per garantire uno sviluppo sostenibile per ben il 72% degli italiani. A questi vanno aggiunti i prodotti la cui sostenibilità è certificata in maniera specifica come quelli equo e solidali o biologici, il cui acquisto viene ritenuto importante, rispettivamente, dal 52 e dal 47% degli intervistati. Nello specifico, quando si valuta un prodotto, il rispetto di criteri etici, sociali o ambientali costituisce un elemento determinante per il 34% delle persone. Insomma, se ce ne fosse ancora bisogno, l’attenzione crescente a questi temi è confermata anche dalle ultime ricerche e, addirittura, il 76% dei consumatori ritiene molto importante che l’azienda garantisca la sostenibilità della propria filiera, anche se solamente il 27% pone spesso attenzione a tale aspetto al momento dell’acquisto. D’altra
parte, gli strumenti informativi a disposizione dell’acquirent sono ancora pochi. L’Esigenza è insomma molto sentita, soprattutto per i prodotti alimentari (80%), ma uno dei problemi principali resta quello di reperire informazioni affidabili. Tra le fonti più apprezzate, spiccano per il 56% le associazioni dei consumatori, segue la valutazione di un ente super partes (considerato affidaabile dal 40% dal 40% dei rispondenti), mentre al terzo posto si collocano le aziende produttrici, con un buon 37% delle preferenze.
Nonostante i dubbi sollevati dai magazine inglese, gli italiani sono quindi tuttora decisamente “affamati” di informazioni sulla sostenibilità dei prodotti e gli istituti di certificazione sono considerati tra i più affidabili nel fornire questo genere di indicazioni, indipendentemente dal fatto che siano relative agli aspetti ambientali o a quelli sociali.
Le aziende, dal canto loro, sembrano esserne ben consapevoli. Nel numero di GreenBusiness dello scorso aprile abbiamo sottolineato che il 64% della società italiane che predispongono un report di sostenibilità sottopongono i dati e le informazioni in esso contenute alla verifica di un soggetto esterno. I dati forniti nella redazione di bilancio di Accredia, l’ente italiano di accreditamento degli organismi certificatori confermano questa tendenza. Nel 2011, nonostante le “ristrettezze” dovute alla crisi, il settore è cresciuto in maniera significativa, in particolare per gli schemi attinenti alle certificazioni ambientali, che hanno avuto un incremento complessivo del 23% sul 2010. Un fenomeno analogo ha interessato anche gli schemi di gestione per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro,cresciuti a loro volta del 23 per cento.
Un po’ di ordine
L’attenzione per l’argomento è insomma tanta, ma è importante chiarire che, nella vasta gamma di certificazione di sostenibilità, è necessario fare alcune distinzioni.
«Innanzi tutto esistono da una parte le certificazioni accreditate, rilasciate cioè da istituti riconosciuti da Accredia, l’organismo unico di accreditamento operante in Italia e, dall’altra , quelle non accreditate» chiarisce Michele Crivellaro, responsabile divisione ambiente e responsabilità sociale di Csqa, società italiana di certificazione. Tutte le attestazioni, per essere valide, devono essere informate dai principi di imparzialità, indipendenza, correttezza e competenza. Dal 2008 esiste un regolamento europeo che definisce che cosa sia l’accreditamento. In Italia, per decreto interministeriale pubblicato nel gennaio 2010, è Accredia a farsi garante dell’uniformità a questi principi fondamentali, alla base delle valutazioni di conformità. L’ente opera sia nel settore volontario sia in quello cogente, dove l’accreditamento degli operatori responsabili (organismi e laboratori) è prerequisito per il rilascio delle autorizzazioni e per le notifiche da parte delle autorità competenti. L’accreditamento, dovrebbe quindi sgombrare il campo in merito agli eventuali dubbi sul conflitto di interessi della società che conferisce le certificazioni.
Un’altra importante differenza è quella tra le certificazioni di sistema e quella di prodotto. Le prime sono dedicate all’organizzazione aziendale e hanno un impiego prevalentemente b2b, le seconde, invece, informano riguardo alle caratteristiche di uno specifico bene e più frequentemente si rivolgono ai consumatori finali.
Un’ultima distinzione di base va fatta tra le certificazioni di adesione a norme stabilite da enti ufficiali, come le UNI EN ISO e quelle ottenute in base a standard codificati da associazioni e gruppi multitaskeholder.
Anche se le prime possono soffrire dell’eccessiva genericità, garantiscono l’impiego di criteri di valutazione unanimemente riconosciuti come corretti. Un po’ di conoscenze di base potrebbero semplificare lan lettura delle certificazioni di sostenibilità, facilitandone la comprensione e spazzando il campo da eventuali sospetti.
Uno strumento alternativo
Resta comunque qualche dubbio da risolvere. «Le certificazioni sono uno strumento parziale – spiega Leonardo Becchetti, professore di economia politica all’Università Tor Vergata di Roma -, innanzi tutto perché non permettono una valutazione socio-ambientale completa dell’azienda e poi perché i metodi utilizzati dalle società certificatrici hanno costi fissi troppo alti e penalizzano le imprese di dimensioni più piccole. E’ per questo motivo che le grandi società, in grado di permettersi del personale dedicato, occupano spesso i primi posti nelle classifiche internazionali di sostenibilità.
Nonostante ciò, non possiamo rinunciare alla possibilità di offrire ai consumatori degli strumenti per scegliere i prodotti in base a criteri etici e, soprattutto, ambientali. Anzi, sempre di più in futuro sarà di importanza strategica permettere ai cittadini di “votare con il portafoglio”. Proprio per consentire e semplificare questo tipo di approccio, stiamo creando uno strumento di facilitazione delle relazioni tra clienti e aziende. Si tratta di un sito Internet concepito come luogo di dialogo e confronto aperto tra diversi interlocutori. A sostenerlo e alimentarlo, un’associazione denominata Next (Nuova Economia per tutti) costituita da trenta diverse organizzazioni».
Nonostante sia evidente che non si tratta del primo caso di luogo virtuale di dibattito e confronto sulle tematiche della sostenibilità, la forza di questo nuovo progetto sembra risiedere nell’alto livello degli attori che lo propongono, tra i quali spiccano, i sindacati,le organizzazioni industriali, le principali ong e associazioni dei consumatori. A titolo individuale il sito è promosso anche da parecchi docenti universitari e dovrebbe essere disponibile entro quest’anno.
Tra esperienze nuove e certificazioni tradizionali, che vanno comunque perfezionandosi, le possibilità per il consumatore di scegliere in base a criteri di sostenibilità sempre più oggettivi e facili da interpretare sono ormai diffuse. Per chi puntava tutto sul greenwashing sono in arrivo tempi difficili.
Novità sull’accreditamento
Il settore della sostenibilità è in costante evoluzione. E’ necessario quindi che anche le normative si adeguino per tempo ai nuovi contesti internazionali. Un esempio di ciò è rappresentato dalla progressiva introduzione di nuove certificazioni cogenti. Cresce di pari passo il ruolo di Accredia, che il ministero dell’ambiente ha recentemente designato come responsabile dello svolgimento delle attività istruttorie per le direttive del Nuovo approccio ai regolamenti europei. Sul fronte ambientale spiccano in particolare il sistema dello scambio delle quote di emissione dei gas effetto serra e la promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili. Ma non è tutto, è previsto infatti che possa presto costituire ulteriore oggetto di affidamento anche il compito di definire le modalità di accreditamento per i revisori degli Lca (norma UNI ISO EN 14040). Tra le ultimissime certificazioni regolamentate dall’ente di accreditamento spiccano inoltre due novità risalenti allo scorso marzo: la firma del protocollo di intesa con Itaca (Istituto per l’innovazione e la trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale) che consentirà di promuovere la sostenibilità ambientale delle costruzioni e la definizione delle prescrizioni per l’accreditamento degli organismi che rilasciano certificati di conformità riguardanti i biocarburanti e i bioliquidi. Quest’ultimo comparto rappresenta infatti una delle voci chiave per raggiungere gli obiettivi Ue ’20-’20-’20. Per tale motivo, entro agosto, i produttori italiani di biocarburanti dovranno ottenere la certificazione che attesti il rispetto dei criteri di sostenibilità e tracciabilità del processo produttivo, consentendo di verificare la correttezza della composizione e l’effettiva riduzione di CO2. La certificazione obbligatoria, tra l’altro, sarà necessaria per ottenere gli incentivi di prossima definizione.
Una guida per orientarsi al meglio
Il settore delle certificazioni è certamente vasto e complesso, ma si tratta di un terreno che è necessario esplorare per capire come comunicare al meglio il proprio impegno. Chi desidera orientarsi e saperne di più ha oggi a disposizione un testo ampio e di semplice consultazione, con utili schemi riassuntivi e una pratica suddivisione per argomenti chiave, che consente la lettura selettiva delle voci che interessano: Sostenibilità e rischio green washing. Guida all’integrazione degli strumenti di comunicazione ambientale di Michele Crivellaro, Giampietro Vecchiato e Federica Scalco.
Fonte: Green Business
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