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Una strana riforma linguistica

29/06/2011

Un tempo erano i libri a essere messi all'indice. Ora le singole parole. Una guerra più sottile ma non meno pericolosa. Perché fermandosi alle apparenze si dimentica il reale valore che le parole racchiudono in sé. Una riflessione di _Sergio Zicari._

di Sergio Zicari
Comunicare non è inventare nuove parole. Era questo il titolo di un mio articolo pubblicato qualche tempo fa con il quale puntavo il dito sul fatto che, negli ultimi anni, è diventata universalmente diffusa l’abitudine di sostituire con parole nuove, socialmente accettabili, vocaboli carichi di emozioni potenzialmente negative, in un tentativo di esorcizzare comportamenti o atteggiamenti che potrebbero essere in qualche modo sminuitivi o discriminatori. Nel mio scritto ricordavo che oggi non abbiamo più ciechi, ma “non vedenti”, che i negri sono stati sostituiti dai “neri”, che gli invalidi sono diventati “diversamente abili”, che gli spazzini sono scomparsi per fare posto agli “operatori ecologici” e via dicendo. Invece di cambiare l’emozione, cambiamo le parole. Non riuscendo a modificare i comportamenti si è pensato di risolvere il problema cambiando… il vocabolario. È come se bastasse cambiargli nome perché un vulcano o un terremoto perdessero la loro potenza distruttrice.
Ricordavo, nel mio scritto, che non sono le parole a fare la differenza, ma i pensieri e i sentimenti che abbiamo dentro di noi. Ero bambino quando i “down” erano chiamati “mongoloidi”, ma i miei genitori mi hanno insegnato a trattarli con rispetto e affermavano che avrebbero preferito avere un figlio mongoloide piuttosto che un figlio privo di rispetto verso il prossimo qualunque fosse il mestiere (“becchini” compresi, anche se adesso li chiamiamo “addetti alle onoranze funebri”), la condizione fisica, economica o culturale. In questa assurda “attenzione” al termine usato piuttosto che all’atteggiamento reale, stiamo raggiungendo vette davvero incredibili. Ecco, allora, che ogni tanto leggiamo di qualche Ministero o qualche Organismo o Ente che mette al bando espressioni di uso comune (e assolutamente innocue) perché considerate non “corrette politicamente”. Ecco qualche esempio di espressioni “vietate”:
• Non si deve dire «Oggi è stata proprio una giornata nera» perché è un’espressione razzista: si deve
dire “Che giornata deprimente”!
• Per indicare un abile collaboratore, non si può più dire «Marco è il suo braccio destro» perché offende i mancini: va sostituita con “secondo in comando”.
• «Si tratta di un accordo tra gentiluomini» va evitato perché discrimina le donne: meglio “accordo
fiduciario”. E così via.
Capite? Invece di stare attenti ai pensieri e ai concetti che vogliamo esprimere siamo invitati, anzi “obbligati”, a concentrarci neanche sul modo che usiamo per comunicare (nel senso di farci capire), ma sul non usare parole che “qualcuno” potrebbe considerare offensive! Da parte mia, per adeguarmi, eviterò espressioni quali “sono diventato rosso dalla vergogna” e “giallo dalla bile” per non offendere i pellirossa d’America, i giapponesi e i cinesi. Eviterò anche di dire “verde dalla rabbia”nel caso qualche extraterrestre permaloso sia in ascolto!
Beninteso, per par condicio, mi farò promotore di una petizione per l’abolizione delle espressioni “sei bianco come uno straccio” e “andare in bianco” perché è una chiara discriminazione verso noi poveri visi pallidi. Ma c’è una cosa che mi colpisce ancora di più dell’idiozia di occuparci di questi “giochi con le parole”.
Mi chiedo come mai siamo così attenti a non toccare la sensibilità dei “diversi” mentre siamo così pieni di volgarità? Così indifferenti verso la sensibilità dei nostri figli, ma anche di certi adulti da utilizzare espressioni oscene e volgari ogni cinque parole “normali”, in ogni ambiente, situazione e per qualunque “motivo”?
Mi chiedo perché le donne, così pronte a reclamare la pari dignità, le pari opportunità, il loro non essere “oggetto”, sono poi quelle che più *si distinguono nell’uso di questo linguaggio volgare *(persino con espressioni che, per loro costituzione, proprio non potrebbero usare)? Rientra nella loro strategia di essere superiori agli uomini in tutto e per tutto?
Mi chiedo perché in questi anni di proclamato rispetto interreligioso, persino là dove non c’è una reciprocità, di forti prese di distanze e persino di condanna per una vignetta umoristica riferita a una religione noncristiana (che, beninteso, va assolutamente rispettata), è invece normale l’uso della bestemmia in totale dispregio non solo di una religione, ma anche della sensibilità di un certo numero di credenti?
Non so quale sia la vostra opinione, ma per me la risposta è semplicemente che, dietro tutto questo, c’è una diffusa, agghiacciante ipocrisia. Con l’aggravante che, diversamente dai tempi della regina Vittoria, siamo convinti di essere mentalmente aperti ed evoluti. Cambiare le parole è troppo facile. Molto più difficile cambiare dentro di noi!
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