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Una "unsuccess story": Alixir di Barilla

03/02/2009

La Barilla ha investito dieci milioni di euro equamente ripartiti tra “ricerca” e “concept” (le virgolette sono d’obbligo, vista l’ambiguità di entrambe) per rendersi conto di aver sbagliato prodotto. Un'analisi del recente insuccesso di Biagio Carrano.

Segnalo rapidamente ai lettori alcuni link ai siti FrizziFrizzi e a Ovosodo che raccolgono qualche perplessità sul prodotto e la storia del tentativo da parte di Ninjamarketing di persuadere alcuni bloggers attraverso un educational-degustazione a Roma.


Intendo invece capire alla luce dei concetti che sviluppo in questo blog il perché dell’insuccesso.


Barilla con Alixir voleva rivolgersi a un segmento salutista e affluente disposto a pagare un prezzo alto per comprare prodotti innovativi e con un valore aggiunto in termini di apporto nutrizionale. Il tutto impacchettato in confezioni nere e lucide.


Orbene, quel segmento individuato da Barilla non esiste se non nelle analisi “aggiustate” di sociologi alla Enrico Finzi. Nelle dimensioni di quel presunto segmento convivono almeno tre o quattro sotto-segmenti e una nicchia.


Innanzitutto vi è la nicchia (qui per il mio concetto di nicchia di eccellenza) che ha sviluppato negli anni una sensibilità “slow”, che si orienta verso prodotti biologici, tradizionali, “a chilometro zero” e ha talmente introiettato la cultura/il culto del cibo “buono, pulito, giusto” che non si fa certo irretire da Alixir.


Poi vi è il segmento che potremmo definire “labels checkers”, quelli che verificano l’etichetta per vedere quanti grammi di grassi (idrogenati e no), quante proteine e carboidrati, eccetera: salutisti per motivi principalmente estetici che possono indirizzarsi al supermercato verso prodotti come Yakult.


Abbiamo anche un segmento ipersalutista che compra integratori e alimenti addizionati con fibre, omega3 e altri principi nutritivi solo in farmacia.


Infine abbiamo un segmento “wanna be”, con cultura e reddito medio-bassi, i quali forse compreranno saltuariamente il prodotto per curiosità e meccanismi “me too” di imitazione affluente, ma non saranno fondamentali in termini di volume e valore sviluppati, soprattutto perché con la crisi che c’è sono i primi a tagliare questi “sfizi”.


Da quanto si capisce la metodologia di sviluppo e di marketing di Barilla è stata simile a quella sviluppata negli anni Settanta per Mulino Bianco, illudendosi che potesse funzionare a 30 anni di distanza.
Ma chi spiega al direttore marketing di Barilla che non si può più applicare lo stesso modello strategico a tanti anni di distanza? Perché sono sempre così pigri i responsabili marketing da non farsi mai un giro per supermercati e mercatini rionali? Perché invece si fanno ancora rassicurare dalle solite ricerche di mercato “a là carte” dei soliti sociologi del consumo? Perché non sono mai andati a un Salone del Gusto? (e se ci sono andati non lo hanno capito)


Lo stesso packaging nero sfiora il ridicolo. E’ vero che il nero spesso viene associato al lusso ma bastava ricordarsi del flop della mozzarella Francia in busta nera per farsi venire dei dubbi ed evitare di andare fino a Londra dai designers di Williams Murray Hamm. Il nero in un prodotto che dovrebbe essere mangiato tutti i giorni (biscotti, succhi, mozzarella) suscita sospetto. Anche gli altri packaging non fanno vedere il prodotto ma il nero sembra mascherare il prodotto. E finisce per renderlo ansiogeno.


Domanda ulteriore sulle occasioni di consumo: ma se proprio uno non riesce per troppi impegni ad avere un’alimentazione equilibrata non è più efficace ed economico comprarsi un barattolino di integratori? Di qui un’altra incoerenza: ci si rivolge a chi non ha tempo per nutrirsi bene ma poi si propone un packaging e un approccio al prodotto che richiede tempo per sedersi, scartare buste e bustine, prepararsi un contorno, ecc.


Un prodotto insomma troppo complesso e costoso per il pubblico che più poteva essere affascinato dall’operazione (i “me too”) e troppo poco innovativo e genuino per chi invece ha soldi e cultura per apprezzare un’eventuale novità.


La multa di 200mila euro comminata nel settembre scorso alla Barilla dall’Antitrust per pubblicità ingannevole è solo l’ultimo tassello di un disastro evitabile. Da Barilla si sono scusati dicendo “che il cibo pubblicizzato fa bene non lo dice la campagna di comunicazione ma le indagini scientifiche effettuate”. Peccato che questi cibi non possono neanche definirsi dietetici visto il “considerevole apporto calorico” evidenziato dai Nas di Parma.


Hanno insomma provato a vendere “un concept”, dimenticandosi che nelle nicchie e in generale nell’alimentare, al centro ci deve sempre essere un prodotto, e l’esperienza gustativa, olfattiva, fisica e culturale (nel senso antropologico del termine). Buon per tutti coloro (designers, sociologi, comunicatori, markettari vari) che si son divisi dieci milioni di euro per provare a vendere questa fuffa. Tanto peggio per Barilla.



Biagio Carrano
tratto da L’immateriale
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