Verso la Carta dell’Informazione Ambientale: narrazione e brand journalism
20/11/2014
La sostenibilità rappresenta un tema sempre più importante per imprese ed istituzioni. Da qui l’idea di FIMA – Federazione Italiana dei Media Ambientali di creare una Carta dell’informazione ambientale che fissi dei parametri di qualità sui contenuti ed aiuti a misurarsi con le tematiche ambientali in maniera competente e consapevole. Il commento di Sergio Vazzoler.
Con l’affermarsi della sostenibilità come tema centrale per le imprese oltre che per le istituzioni, la comunicazione ambientale è diventata più diffusa e più complessa.
A ciò si aggiunge la tendenza per cui il tono dei dibattiti sulla responsabilità d’impresa, sulla gestione delle emergenze ambientali e sulla negligenza aziendale, spesso si scalda parecchio, soprattutto quando
ONG, movimenti ambientalisti e comitati civici esprimono critiche sugli sforzi delle aziende e sulle loro eventuali responsabilità. Una tendenza che spesso coinvolge anche le istituzioni, gli enti terzi e le autorità di controllo.
In questo contesto, il ruolo di chi è chiamato a comunicare i temi ambientali assume un’importanza crescente: non solo gli operatori dell’informazione ma anche i comunicatori pubblici, delle imprese e del terzo settore.
Da qui le ragioni della nascita di
FIMA, la Federazione Italiana dei Media Ambientali, e da qui, oggi, un ulteriore passo: la “*Carta dell’Informazione Ambientale”*:http://fimaonline.it/verso-la-carta-dellinformazione-ambientale/. Il mio personale contributo a questo lavoro collettivo si concentra su due singoli aspetti che penso abbiano un crescente impatto sulla qualità dell’informazione ambientale.
L’ambiente: complessità, divulgazione e narrazione
L’informazione ambientale sconta tutt’oggi un problema irrisolto: la complessità.
La comunicazione sugli effetti provocati dai
cambiamenti climatici ne rappresenta
l’emblema. Da circa 25 anni, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (
IPCC) pubblica rapporti periodici per mettere in guardia il mondo dai pericoli in tal senso. Le conoscenze scientifiche accumulate in tutti questi anni hanno una portata enorme e il lavoro di raccolta, analisi e sintesi è davvero mastodontico. Eppure, l’impatto dei rapporti
IPCCcontinua a essere assai limitato.
Nonostante tutti gli sforzi per contestare i ragionamenti degli scettici e sfatare i luoghi comuni, l’opinione pubblica non ha fatto progressi rispetto a quando l’IPCC iniziò la sua attività.
Un recente rapporto pubblicato da
Climate Outreach & Information Network osserva, ad esempio, come l’IPCC riesca a raggiungere il proprio obiettivo di mettere al corrente i decisori del cambiamento climatico, senza però riuscire a fare da catalizzatore per ottenere una risposta politica e pubblica adeguata. E ciò, secondo il think tank di Oxford, continuerà fino a quando non si evolverà il rapporto della scienza con la società e fin tanto che i documenti prodotti dall’IPCC non saranno accompagnati da
narrazioni forti che rendano viva la scienza e che partano dal punto di vista dei suoi pubblici: che cosa deve sapere il settore delle costruzioni per creare infrastrutture low-carbon? Che impatto potrà avere il clima che cambia sui programmi della sanità pubblica per gli anziani? E così via.
Ma se il climate change è l’emblema, non è che gli altri temi ambientali se la passino tanto meglio dal punto di vista dell’efficacia divulgativa. Nonostante alcune eccezioni di valore, ancora troppo marcata è la
connotazione tecnica di chi racconta il funzionamento delle energie rinnovabili, i sistemi di raccolta e gestione dei rifiuti, i percorsi di bonifica ambientale e persino i vantaggi di vivere in una cittàintelligente. Persino negli
speciali dei grandi giornali che precedono eventi di punta del settore, come in questi giorni per Ecomondo, si assiste a una “caduta di impatto” rispetto alle pagine precedenti e successive degli stessi quotidiani: eccessivo utilizzo di acronimi, abbondante ricorso a inglesismi (dalle smart grid all’e-procurement passando per il waste to energy, il recycling e il decommissioning), rassicurante rifugio nel
linguaggio per addetti ai lavori ed eccessivo spazio ai
pubbliredazionali da parte delle aziende, in cui tecnologia e ingegneria prevalgono su divulgazione, semplificazione e modalità di ingaggio con i lettori.
Eppure le storie sono i mezzi con i quali impariamo sin da piccoli a “leggere” i fatti intorno a noi, impariamo valori e costruiamo le nostre idee. Le storie le troviamo un po’ dappertutto ma spesso non le troviamo nella comunicazione ambientale.
FIMA, tramite la Carta dell’Informazione Ambientale, può e deve provare a
includere nella cassetta degli attrezzi formativi anche la semplificazione del linguaggio tecnico-scientifico e la ricerca di “cornici” di significato condiviso in cui incasellare i temi e le sfide ambientali.
Media e informazione aziendale: evoluzione di un rapporto complesso
Il rapporto tra le testate giornalistiche e gli uffici stampa delle aziende è sempre stato complesso e assomigliava a una sorta di
tiro alla fune. Poi nell’ultimo decennio l’imporsi della comunicazione digitale con la conseguente creazione di una
nuova sfera pubblica che si informa, dibatte e si attiva in un ambiente fortemente disintermediato, ha completamente cambiato lo scenario, impattando tanto sul giornalismo quanto sulla comunicazione aziendale.
E così, complice anche la crisi dell’editoria, torna alla ribalta un fenomeno che è sempre esistito ma che oggi assume un peso più rilevante: il
brand journalism, ossia l’informazione prodotta dalle aziende.
Sono proprio i social network e gli altri strumenti di comunicazione digitale che permettono a queste notizie di raggiungere un pubblico sempre più vasto. Ma non solo. Da un lato le imprese si organizzano con vere e proprie redazioni (o con l’ausilio delle agenzie di RP) in grado di sfornare articoli, video, infografiche, utilizzando i propri canali di comunicazione per la loro diffusione. Dall’altro lato le testate giornalistiche, specialmente quelle online e specialmente a livello locale, hanno bisogno di questo tipo di contenuti multimediali per creare “traffico” e interazione.
Dunque,
siamo di fronte a un nuovo perfetto meccanismo di vasi comunicanti? Non proprio, nel senso che il confine tra scambio virtuoso e nuove forme di controllo, indirizzo e “conquista” degli spazi giornalistici si assottiglia pericolosamente. E se diversi operatori dell’informazione e testate offrono alle aziende le proprie competenze per aiutare i marchi a
trasformare progetti in storie, altri media, per necessità di distinzione o reazione, sono portati a intraprendere vere e proprie
battaglie pregiudiziali contro le informazioni provenienti dalle aziende.
Ma così facendo, in termini generali ma a maggior ragione su temi scottanti come l’ambiente, l’inquinamento e la salute, si rischia un
cortocircuito dove una libera, corretta e preziosa divulgazione di questioni complesse (quanto mai preziosa e necessaria) viene sostituita con una sfida tra opposte fazioni. E, alla fine, a farne le spese è solamente il lettore che invece di diventare più consapevole, rischia di schierarsi come allo stadio.
Pur non potendo intervenire su logiche e tendenze di mercato,
FIMA e la Carta dell’Informazione Ambientale possono e devono giocare un ruolo importante nel fare cultura circa
l’interesse generale a cui l’informazione ambientale mira e nel
raccontare e valorizzare le buone pratiche di una corretta comunicazione ambientale.
Fonte: Amapola