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Web 2.0: apocalittici o integrati?

13/04/2011

Un'inchiesta sul lato oscuro e i rischi dei social network della trasmissione tv _Report_ scatena il popolo della Rete e molti comunicatori che parlano di strumentalizzazione. _Anita Fabbretti_ interviene nel dibattito con un'analisi a mente fredda sui temi toccati dalla trasmissione Rai.

di Anita Fabbretti
Domenica 10 aprile è andata in onda su Rai 3 una puntata di Report dedicata ai social network, la privacy, la sicurezza e libertà nella Rete. A mio avviso niente da eccepire, un buon prodotto per il pubblico di massa, ben confezionato per il proprio target, adeguato nella trattazione dei contenuti e comprensibile. Ma le opinioni sono e devono rimanere opinioni. Questa premessa è doverosa per chiarire che forse bisognerebbe fare una riflessione seria e non pressappochista o superficiale sul polverone di polemiche che la trasmissione sta suscitando, soprattutto tra gli specialisti del nostro settore e gli addetti ai lavori. Sono infatti molti che, quasi coralmente, hanno tacciato la trasmissione di quella superficialità nella quale rischiamo di affossarci un po’ tutti. Il motivo è semplice.
Report in questa puntata non aveva lo scopo di fornire una visione apocalittica del web, ma ha illustrato in modo piuttosto semplice, come era doveroso fare per una trasmissione di servizio propria di una tv generalista, quali possono essere i rischi di questo meraviglioso mondo. Lavorando nel settore IT in un’azienda che si occupa della realizzazione di software per intranet, di applicativi per il collaboration e il social business, di progetti per la gestione delle informazioni e analisi dati, e lavorando nel marketing e nella comunicazione, non solo mi trovo ad usare gli strumenti che tutti noi utilizziamo quotidianamente per promuovere l’immagine aziendale, ma in qualche modo “assisto” alla creazione di mondi virtuali e mi trovo spesso a “raccontare” quali magnificenze possono portare in termini di benefici alle organizzazioni che li adottano e agli utenti che devono utilizzarli nello svolgimento delle loro mansioni quotidiane.
Report non dice il falso quando avverte che nel web c’è un lato oscuro del quale bisogna rendersi consapevoli. Lo sappiamo, lo leggiamo sui giornali ogni giorno e chi fa il nostro mestiere non può non sentirsi attratto con una sana prudenza da questo vasto mondo. Chi fa il nostro mestiere è costretto a cavalcare l’onda, non può farne a meno, è professionalmente portato ad esplorare ogni opportunità per promuovere in modo corretto ed efficace l’organizzazione (o persona o brand) che rappresenta. Ma ha , o dovrebbe avere, culturalmente, per preparazione o per esperienza diretta, la capacità di comprendere come gestire gli strumenti che il web offre. Questo è ancor più vero dopo l’esplosione degli strumenti per il web 2.0, il web partecipativo, strumenti che abilitano chiunque li usi a “comunicare”. Ottimo, una grande opportunità di crescita … ma chi può negare che in questi strumenti non sia insito anche un grosso pericolo? Sappiamo, è nostro pane quotidiano, che per parlare al nostro pubblico di riferimento ed effettuare un buon governo delle relazioni pubbliche, dobbiamo saper individuare, conoscere e targettizzare chi ha interesse ad “ascoltarci” e che, una volta dichiarati gli obiettivi di comunicazione , possiamo elaborare un piano per entrare in contatto con il nostro target nel modo più efficace possibile. Perché è questo che agevola la creazione di una relazione. Ma per fare questo dobbiamo necessariamente utilizzare gli strumenti adeguati e non tutti lo sono in maniera indiscriminata. Gli strumenti non sono una moda, sono il mezzo per ottenere un risultato.
Come comunicatori non possiamo non essere sensibili al corretto uso degli strumenti web 2.0 (i social network ne sono solo un esempio). Conoscere le opportunità e ancor più i rischi di ogni strumento individuato per l’attuazione dei nostri piani di comunicazione è necessario per una gestione ottimale delle singole attività. Ogni strumento richiede un controllo, un governo che non riguarda solo aspetti tecnici. In realtà quello che entra in ballo sono soprattutto aspetti organizzativi. Non basta creare un blog aziendale, una pagina su Facebook o su LinkedIn per assolvere al proprio compito con il solo risultato di entrare dentro ad un gran calderone senza sapere bene come muoversi. Proprio perché la natura di questi strumenti è open, è partecipativa, l’aspetto più delicato è il monitoraggio costante di questi luoghi virtuali nei quali la web reputation aziendale o personale va salvaguardata da qualsiasi possibile attacco. Un commento o una informazione “contro” diventa un eco incontrollabile, che viene catturato e riproposto all’infinito dai motori di ricerca nella loro attività di indicizzazione. Senza parlare poi di quanto possa ledere l’immagine aziendale, in termini di credibilità, un’attività, quale ad esempio la creazione di un blog, che venga implementata senza una strategia e mantenuta con costanza. Ma questo vale anche per quei progetti di comunicazione interna nei quali vengono proposti strumenti collaborativi, web 2.0, per la condivisione di conoscenza e idee ai fini della promozione di una creatività e competitività aziendale.
Sono progetti che fanno fatica a decollare e spesso falliscono gli obiettivi perché non si tiene conto di un aspetto fondamentale: la reale voglia e capacità delle persone di interagire almeno nei termini auspicati dall’azienda, per resistenze di varia natura.
Quindi, l’esigenza di fare ordine e chiarezza in questo marasma di tools è sempre più pressante, non può e non deve lasciarci indifferenti o fermi su posizioni rigide. Non si può non cogliere l’opportunità che il web sta offrendo, ma non si può negare che i timori di una rete fuori controllo o addirittura, come ha ben illustrato Report, fin troppo controllata da centri di potere neanche troppo occulti , e quindi in questo senso pericolosa, sono più che fondati.
Questo contributo vuole essere solo uno spunto per una riflessione costruttiva, un sassolino lanciato nel mare di confusione in cui navighiamo ogni giorno, con la speranza che si possa arrivare a fare una analisi puntuale della nostra “cassetta degli attrezzi”, elemento determinante nella nostra professione, ma sempre mutevole.
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