Sergio Vazzoler
Non è forse tutto questo appiattimento dove tutto si mischia, dove sangue e folklore hanno lo stesso peso specifico, che rende noi stessi dei trojan che inquinano il dibattito pubblico e la comunicazione pubblica? Molte le domande e le chiamate alla responsabilità dei comunicatori di Sergio Vazzoler, nel primo contributo sul dibattito relativo a social media e democrazia, lanciato la scorsa settimana da Biagio Oppi.
Dove eravamo?
Quando è successo?
Com’è che non ci siamo accorti del precipizio?
Quante alzate di spalle abbiamo contrapposto agli evidenti segni di decadenza nel dibattito pubblico e politico?
Quante volte ci siamo girati dall’altra parte per evitare di sentirci corresponsabili davanti alla violenza verbale assunta come paradigma di comunicazione?
No, francamente non ho risposte né particolari certezze circa i temi giustamente sollevati in seguito all’assalto di Capitol Hill e alla conseguente decisione di Facebook e Twitter di bloccare gli account di Donald Trump. Non ho risposte ma, al contrario, ho molti quesiti da condividere con la nostra comunità professionale.
Ci è sfuggito il doppiopesismo di Zuckerberg & Co. nell’intervenire a gamba tesa sulle democrazie occidentali rispetto ai regimi totalitari? Forse sì ma quanto è importante rispetto alla nostra silenziosa e colpevole distrazione rispetto all’affermarsi del “Codice Travaglio”? E quanti tra di noi comunicatori mentre consigliavamo ai nostri clienti, studenti e interlocutori di praticare l’ascolto strutturato e l’agire socialmente responsabile, praticavamo il silenzio-assenso (e in molti casi pure il consenso) davanti alla pioggia di like per chi “asfaltava” (che espressione orrenda!) il prossimo?
Quando un paio di anni fa sollevai il tema in FERPI qualcuno mi disse che non dovevamo sconfinare nel dibattito politico. Come se i messaggini intimidatori del portavoce del Presidente del Consiglio ai funzionari del MEF non fossero un bubbone infettante per la nostra professione e la nostra credibilità! Ce lo siamo già dimenticato quell’episodio, vero? Ma non siamo quelli che insegnano a cogliere i segnali deboli e a evitare che la rana si culli nel tepore dell’acqua che bolle?
E, per tornare ai recenti fatti di Capitol Hill, ci siamo resi conto che mentre i lanci di agenzia ci parlavano di sangue e morti, il tam tam in rete si gonfiava e si entusiasmava molto di più per i meme dello sciamano e l’onnipresente sarcasmo digitale? Non è forse tutto questo appiattimento dove tutto si mischia, dove sangue e folklore hanno lo stesso peso specifico, che rende noi stessi dei trojan che inquinano il dibattito pubblico e la comunicazione pubblica? Questo senza per forza dover scomodare algoritmi, big data e intelligenza artificiale…
Domande, domande e ancora domande che ci dobbiamo continuare a porre intorno alla “peste”, a noi stessi e alle nostre responsabilità. Quella peste virale cantata da Vinicio Capossela ben prima dell’infodemia esaltata dalla pandemia e dei fatti di Capitol Hill : “La meravigliosa peste virale. Che tutti ci fa liberi. Che tutti ci fa uguali. Non risparmia Papi e reggenti, sovrani e presidenti…” e, aggiungo io, non risparmia pure noi comunicatori.