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Come cambia la Public Diplomacy

06/03/2009

Successo e consensi per il primo corso su Public diplomacy e relazioni pubbliche previsto dalla convenzione sottoscritta tra Ferpi e l’Istituto Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri che si è tenuto a Roma dal 3 al 6 marzo presso villa Madama. Un primo bilancio di Toni Muzi Falconi, che l’ha organizzato assieme a Fabio Ventoruzzo e con i contributi autorevoli di Dejan Vercic, Mindi Kasiga, Sriramesh Krishnamurty e Roger Hayes.

Toni Muzi Falconi


Sono nato 68 anni fa… figlio di papà – si – ma anche figlio di mamma.
Lui diplomatico di carriera e di famiglia nobile; lei, angloirlandese, figlia, a sua volta, di un diplomatico britannico di forte peso e di ferrei principi.
Insomma: sono nato bene, cresciuto bene ed educato un po’ così e così, in giro per il mondo.


Il terzo di tre maschi. Il primo ha intrapreso la strada della pubblicità a Londra e poi delle relazioni pubbliche in Italia, attivista della protezione dell’ambiente ed è scomparso un anno fa; il secondo ha seguito le orme del padre e da poco è collocato in pensione; il terzo (chi scrive) aveva sempre detto a se stesso in gioventù che mai avrebbe fatto il mestiere del padre e… quando arrivò il momento di decidere, che ha fatto?
Ovvio, si è messo nelle relazioni pubbliche.


A quei tempi un figlio bene come me, privo di particolare vocazione (per me era forte la curiosità culturale e politica, ma nulla ancora a che vedere con qualcosa di serio), faceva il concorso diplomatico, se lo falliva andava in Alitalia, oppure nelle relazioni pubbliche o nel cinema.
Così erano, per quelli come me, i primi anni sessanta del secolo scorso a Roma.


Ricordo questi frammenti a me stesso e a voi solo, per esprimere un po’ l’emozione che provo nell’attuazione di questo progetto Ferpi sulla Public Diplomacy col Ministero degli Esteri.
Per me, è un po’ come un ritorno all’ovile…


Ma ora bando ai ricordi personali e provo a spiegarvi il ‘senso’ di questa iniziativa:


Non condivido e non apprezzo l’arroganza e l’incoscienza con cui tanti operatori della comunicazione e delle relazioni pubbliche si aggirano oggi intorno all’agonia del nostro Paese, e in particolare del nostro turismo e della nostra economia della cultura, che rappresentano le due prime voci di entrate nette.


Confidando nelle protezioni tipiche della nostra società familistica, nel vuoto di cultura e di modernità dei nostri decisori pubblici, sociali e privati, contribuiamo – nella migliore delle ipotesi – a drenare le casse pubbliche, e nella peggiore, ad accelerare, con iniziative sciagurate, il declino economico del Paese e il degrado della nostra cultura.


A questo proposito, è possibile sommessamente ipotizzare che – nella più consapevole e qualificata comunità professionale internazionale della domanda turistica – abbia prodotto più danni la vicenda delle decine di milioni di euro buttate dalle casse pubbliche nel pozzo nero del famigerato ‘portale Italia’ che non quella della ’immonnezza’ napoletana?


E’ certo vero che entrambe hanno confermato quel che già era ben noto in quello specifico segmento della domanda, ed è altresì vero che la seconda ha sicuramente prodotto grande devastazione sull’attrattività turistica dell’Italia fra i potenziali consumatori finali.
Ma mentre la prima aveva al suo annuncio saputo suscitare attese e speranze andate poi miseramente deluse (al punto che perfino noi di Ferpi ne avevamo parlato bene…), la seconda ha invece solo agito da conferma.
Chiunque conosca solo l’abc della comunicazione ben ne intuisce la differenza.


In questi ultimi 50 anni si è sviluppata una industria dell’immagine e della reputazione-Paese che ha prodotto molti più danni che benefici al posizionamento internazionale dell’Italia.
Naturalmente ci sono anche eccezioni, ma sono davvero pochissime.
Una industria che si è avviluppata intorno a due punti fermi, vincenti e ricorrenti:



una scarsa o nulla segmentazione dei pubblici per la realizzazione – da parte di una offerta improvvisata – di una miriade scoordinata e confusa di iniziative unilaterali, push e asimmetriche che, per il loro consolidamento, ha saggiamente puntato sulla disattenzione, sulla inesistente cultura dell’attuazione e sul fatto che da noi non si è ancora trovato un termine per descrivere il concetto di accountability (responsabilità e rendicontazione);




molteplici soggetti della domanda – in larga parte pubblica e stimolata da noi (da pusher, nel senso più autentico del termine)- interessati soprattutto a soddisfare i nostri appetiti in cambio di contropartite a stretto giro: chessò…una consulenza gratuita di comunicazione per le successive elezioni; oppure l’apporto economico di qualche nostro cliente forte, a sua volta interessato ad ulteriori contropartite…



Lo spirito del primo corso in Public Diplomacy


Lo spirito con cui Fabio Ventoruzzo ed io abbiamo sviluppato questo programma con l’Istituto Diplomatico, non è diverso da quello con il quale abbiamo realizzato la ‘cassetta degli attrezzi’ nell’opera ‘In che senso: cosa sono le relazioni pubbliche’ edito da Luca Sossella e ancora nelle librerie e a vostra disposizione: ed è lo spirito di provare a rendere consapevoli i nostri stakeholder del senso, dei contenuti e dell’utilità anche sociale della nostra attività, quando pensata ed esercitata con consapevolezza e responsabilità.
Dunque la scelta del tema della Public Diplomacy.


Due anni fa ero casualmente inciampato in un saggio della studiosa Elizabeth Toth, direttore della scuola di comunicazione dell’Università del Maryland, e di Seong-Hun Yun, Ph.D. della Kansas State University, nel quale si tracciava brillantemente il profilo delle diverse accezioni della Public Diplomacy e se ne avanzava uno nuovo legato alla recente nascita di un nuovo influente soggetto delle politiche pubbliche, quello dei migranti oggi in continuo e costante contatto con le comunità del proprio Paese di origine.


Un modello che è stato definito del globalismo sociologico, che è andato ad affiancarsi agli altri due del realismo e del liberalismo internazionale.


Sapevo anche e mi ero interessato da tempo alle attività diplomatiche dirette (e solo talvolta concordate con i rispettivi Stati Nazionali) di grandi imprese e di organizzazioni non governative.


In Italia, e da 50 anni, è esemplare il caso dell’ENI, al punto che molti anni fa avevo chiesto a un amico entrato nel Consiglio di Amministrazione di quell’impresa di mettere a disposizione di qualche studioso di Public Diplomacy gli archivi interni dell’Ente per il periodo subito prima e subito dopo la morte di Enrico Mattei, cosa poi effettivamente avvenuta.


Da quando, nel 1994, si è avviata la seconda repubblica, non è passato mese che il Premier, diverse volta anche ad interim Ministro degli Esteri, non tirasse la giacca ai diplomatici della Farnesina affinché contribuissero più attivamente a promuovere anche l’identità e il prodotto del Made in Italy, verso i cittadini dei Paesi in cui rappresentavano. Concetto elementare e un anche po’ superato, ma indubitabilmente razionale.


Milioni e milioni di euro sono stati investiti, e non tutti con modalità adeguate, per questa attività. Ma perché questi sforzi possano davvero avere successo è necessario abilitare (nel senso pieno del termine empower) la cultura e le competenze dei diplomatici affinché governino con sagacia, abilità, senso di concretezza e di urgenza quei flussi relazionali e comunicativi che oggi vanno ben oltre il semplice seppur fondamentale rapporto fra rappresentanza del proprio Governo e altri Governi nazionali; per focalizzarsi anche, consapevolmente e professionalmente sui rapporti fra specifici pubblici del Paese rappresentato con specifici pubblici del Paese in cui è rappresentante dello Stato Italiano e non soltanto del suo Governo.


Non vorrei ricorrere ad un metafora abusata, ma è assai più produttiva la canna da pesca (consapevolezza e azione diretta) che non il pesce (risorse economiche e consulenze dall’esterno che non lasciano traccia). Intendiamoci, non tutto quel che si fa oggi va buttato, ma di certo non si sbaglia abilitando i nostri stakeholder (in questo caso i diplomatici) a capire ed interagire meglio con le società che li circondano.


Un discorso che ovviamente vale altrettanto per tutti gli altri segmenti di stakeholder dei relatori pubblici (imprese, non profit, amministrazione pubblica, media…).
Quando ci lamentiamo (e, ahimè, quanto lo facciamo….!!) del pessimo stato della reputazione della nostra professione, dobbiamo guardarci prima di tutto dentro… e prendere atto che quella reputazione è in larghissima parte meritata.


Poi, constatato ciò, dobbiamo lavorare con i nostri stakeholder e ingaggiarli.
Non per persuaderli che hanno torto attivando campagne unilaterali, push e asimmetriche, ma con un paziente lavoro di con-vincimento (da vincere cum) che siamo portatori anche di competenze e di prospettive utili a loro e all’interesse pubblico, oltre che a noi.


Nel caso specifico, abbiamo scelto di iniziare un percorso, che mi auguro continui anche su altre tematiche, dalla Public Diplomacy: quella pratica professionale che, più di altre, integra le caratteristiche delle due professioni del diplomatico e del relatore pubblico, così diverse fra loro ma pur così contigue.


E non nella stereotipata versione dei pranzi e ricevimenti (che pur, se correttamente interpretata, ha un suo indubitabile valore), ma in quella, invero assai più rilevante, del contributo comune allo sviluppo, alla crescita e al consolidamento delle relazioni con i tanti e cangianti pubblici dei Paesi con i quali intratteniamo rapporti diplomatici e che tante conseguenze dirette e indirette producono o potrebbero produrre sul nostro benessere presente e futuro.


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