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Come può cambiare la comunicazione sociale?

10/02/2011

Si parla molto di comunicazione sociale e di rinnovamento ma nel concreto si fa ancora poco per un reale cambiamento. _Rossella Sobrero_ presenta tre spunti di riflessione per tutti i professionisti delle Rp.

di Rossella Sobrero
La riflessione sulla comunicazione sociale non è ancora abbastanza ampia e coinvolge ancora troppo pochi operatori del settore. Anche se tutti concordano sulla necessità di un rapido rinnovamento, solo alcuni trovano il tempo per parlarne e per sperimentare nuove strade.
Penso di poter affermare che la maggior parte di coloro che si occupano di campagne sociali, in particolare nelle organizzazioni non profit, condividono queste tre considerazioni di fondo: la comunicazione dovrebbe essere meno autoreferenziale, proporre contenuti nuovi, integrare meglio canali e strumenti.
Provo a entrare nello specifico, ponendomi (e ponendo) alcune domande per avviare la riflessione e il dibattito.
1.Le campagne sociali sono troppo autorefenziali e privilegiano sempre la raccolta fondi.
L’approccio utilizzato dalle organizzazioni non profit non sempre mette il destinatario al centro: spesso si è preoccupati di sottolineare il valore del proprio operato senza considerare sufficientemente l’ottica di chi riceve il messaggio.
Anche se – in questo particolare momento – la difficoltà nel reperire risorse sembra essere il problema maggiore (e quindi tutte le campagne sono in realtà finalizzate al fundraising), sembra sia stato dimenticato un ruolo fondamentale della comunicazione sociale: portare l’attenzione su un problema, far discutere, promuovere l’approfondimento.
Dai tempi delle prime campagne di Greenpeace o della LAV sono cambiate molte cose e le iniziative di advocacy sono diventate una “merce rara”. Negli ultimi tempi ricordo quella promossa da UAAR, Unione Atei e Agnostici Razionalisti, che aveva destato tanto scalpore anche per non essere riuscita a trovare spazi a pagamento (neppure in un momento di crisi dove qualunque inserzionista è benvenuto) e un’altra campagna promossa da Mani Tese (per altro circolata pochissimo) sul tema della “sovranità alimentare”, vale a dire della cooperazione tra i popoli per il diritto al cibo.
Siamo sicuri che sia corretto dimenticare il ruolo di “stimolo” del cambiamento sociale che la comunicazione ha sempre avuto?
2. Le campagne sociali raramente propongono call to action convincenti.
Il secondo punto è correlato con il primo e nasce anche questo da una constatazione. Purtroppo sono ancora molte le campagne che utilizzano messaggi “tradizionali” e che liquidano la call to action n una sempre più difficile ricerca fondi, senza mettere in evidenza quello che ciascuno di noi può fare per la buona causa. Iniziative che, proprio per la loro genericità o per il tentativo di risolvere tutto con una richiesta di contributi, risultano essere poco incisive o lasciano nelle persone un senso di sconforto e di impotenza.
Non sarebbe utile studiare più a fondo i messaggi per trovare call to actionforti e convincenti, per creare icone semplici e immediate, per condividere il problema ma anche la soluzione stimolando le persone a riflettere?
3. Le campagne sociali soffrono del problema della “marginalità” e della scarsa visibilità.
Le organizzazioni non profit dedicano purtroppo ancora poca attenzione alla ricerca di nuovi canali e l’utilizzo dei media classici, in particolare della televisione, sembra essere l’obiettivo principale. Ma gli spazi destinati al sociale, lo sappiamo, sono pochi e “distribuiti” a un numero elevato di organizzazioni, con il risultato che nessuna campagna raggiunge la soglia minima necessaria per ottenere l’attenzione che meriterebbe. Naturalmente ci sono alcune eccezioni: per esempio, il Cesvi ha da anni il coraggio di tentare nuove strade (guerrilla marketing, iniziative originali sui social network etc.); Terres des Hommes da alcuni mesi sta utilizzando le app di iPhone per portare l’attenzione su alcuni dei suoi progetti. Ma proprio a partire da questi esempi non è forse il caso di riflettere seriamente se valga la pena battersi per ottenere pochi passaggi di uno spot in una fascia oraria “improbabile”? Non sarebbe forse meglio investire in ricerca sui nuovi media? Non sarebbe utile studiare campagne sempre più crossmediali?
Queste osservazioni provengono da chi crede fortemente nella comunicazione sociale e vanno considerate critiche costruttive.
Se vuole essere realmente più efficace, la comunicazione sociale deve, soprattutto, saper raggiungere il cuore del cittadino ed essere capace di interagire con lui. E noi comunicatori abbiamo il dovere di stimolare questo cambiamento, se vogliamo che la comunicazione sociale abbia il posto che le spetta. Se vogliamo far crescere la cultura della condivisione e della necessità di una contaminazione sempre più positiva tra profit e non profit.
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