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Dal Secolo del Sé (con l'accento) a quello del Noi

23/08/2005

Alcune riflessioni di Toni Muzi Falconi a partire dal documentario The Century of Self di Adam Curtis.

1.Nel 2002 Adam Curtis ha scritto e diretto per la BBC quattro ore di brillante documentario televisivo intitolato The Century of Self o Il Secolo del Sé (con l'accento) in cui con arguzia, umorismo e prodigioso uso della macchina da presa, illustra come la società occidentale sia stata permeata e dominata, a partire dagli anni venti del secolo scorso, da una pervasiva idolatria del sé.Ne avevo sentito parlare di questo lavoro in diverse occasioni ma non ne avevo visto che una prima parte, bellissima, fattami pervenire (dopo la solita animata discussione) dalla sempre prodiga Anne Gregory un paio di anni fa.Ora a New York, ove mi trovo per un lungo periodo di lavoro/riposo, ho colto al balzo l'occasione delle prima uscita dell'intero programma nelle sale cinematografiche e me lo sono proprio goduto, in due puntate successive di due ore per due giorni di seguito.(Una curiosità: nella Grande Mela tornano di moda, anche nelle sale cinematografiche normali, i documentari. In questa settimana ce ne sono in giro ben cinque! Che vuol dire?)2.E' abbastanza naturale che in quattro ore di documentario uno cerchi tutto ciò che aiuta a confermare le proprie opinioni, ma in questo caso riconosco che non è stato difficile anche se, come vedremo, il documentario finisce laddove si avvia proprio quel 'nuovo inizio' di cui parliamo da qualche tempo.Già, perché quelle quattro ore sono quasi interamente dedicate alle relazioni pubbliche, al marketing e alla comunicazione politica: tre continuati intrecci, accompagnati dalla figura professionale di Edward Bernays e da quelle intellettuali di Sigmund e Anna Freud, di Herbert Marcuse, di Wilhelm Reich, di Ernst Dichter (il consulente politico che lavorò anche in Italia per la DC negli anni sessanta), fino ad arrivare ai consulenti di Bill Clinton: George Stephanopoulos e Dick Morris, e a quelli di Tony Blair, Philip Gould e Peter Mandelson (oggi, Commissario Europeo).3.Una brevissima sintesi:'Essere se stessi', 'esprimersi' non è più un comportamento egoista. Imprese e partiti impegnano grandi risorse per leggere, interpretare e soddisfare i nostri desideri grazie anche ai focus groups e al marketing degli stili di vita.Il documentario testimonia questa rivoluzione del secolo scorso e si chiede se si tratti davvero di liberazione del sé o non piuttosto di una nuova vulnerabilità del singolo alla manipolazione e al controllo del potere.Per molti questo cambiamento rappresenta una espressione più avanzata della democrazia: il potere finalmente trasferito al consumatore-cittadino. Per l'autore del documentario non è così.a) la prima puntata illustra la relazione fra Sigmund Freud e il nipote americano Edward Bernays, 'inventore' nei primi anni 20 delle relazioni pubbliche. Bernays fu il primo ad applicare sul mercato le idee del suo illustre zio per indurre il consumatore ad acquistare beni non indispensabili collegandoli, attraverso comunicazione ed eventi, ai suoi desideri inconsci.b) la seconda puntata elabora la teoria di Bernays della 'ingegneria del consenso' dal lui insegnata alla New York University già nel 1923 e poi teorizzata in un libro dallo stesso titolo. In ciascuno di noi esistono desideri e paure, irrazionali e pericolose, e soltanto una solida e forte democrazia delle elites può governare il cittadino indotto a comportarsi bene, se e quando viene soddisfatto nei suoi desideri inconsci di felicità e di benessere.c) la terza puntata racconta le teorie di Marcuse (è la società e non l'individuo a provocare paure e ansie degli individui) e di Reich (il sé non va né governato né represso, ma anzi incoraggiato ad esprimersi socialmente) e di come le imprese, sempre consigliate da Bernays, hanno saputo adattare le ricerche di marketing e soprattutto i focus group applicando le teorie freudiane per capire e interpretare con nuovi prodotti e servizi, ma soprattutto con nuova comunicazione carica di valori, i desideri e le paure del consumatore.d) a quarta e ultima puntata segue le campagne elettorali di Reagan e Thachter, e poi anche quelle di Clinton e Blair, per illustrare come questi leader politici, sia pure con modalità diverse, hanno assorbito ed applicato pienamente le tecniche di Bernays e dei suoi amici psicoanalisti introdotti nelle imprese, nella convinzione di creare una forma migliore e più piena di democrazia, senza rendersi conto (sostiene ovviamente l'autore) che l'obiettivo di chi quelle tecniche aveva creato non era di liberare le persone, ma di dar vita a nuovi modi per controllarle.Ecco: trlascio le emozioni personali non riferibili con adeguate parole su carta se non con 'ben altra penna', ma non posso trascurare di svilupparne una, a mio avviso fondamentale:nell'accettare a Londra qualche settimana fa la Alan Cambell Johnson Medal avevo affermato:...e ritengo anche che, qualora questo percorso dovesse portare ad una serena riconsiderazione delle eredità di alcuni nostri riveriti padri fondatori vista la società revisionista in oggi viviamo - potremo procedere con tranquillità.Non poteva esserci riferimento più esplicito a Edward Bernays. Tanto che qualcuno lo ha anche colto e (privatamente) me ne ha chiesto conto: ma come mi ha scritto - abbiamo così pochi riferimenti storici ed ora ti metti pure smantellare quelli che abbiamo!Premetto subito che, dopo avere visto The Century of Self ed essermi anche riletto Propaganda del 1923, da pochi mesi riapparso in nuova edizione nelle librerie americane, mi sono, come dire, un po' ricreduto.Certo: è sicuramente vero che Bernays nella sua lunghissima e agitatissima vita ne ha fatte, come si suol dire, 'più di Carlo in Francia' e che nessuno meglio di Bernays ha interpretato per molti decenni quel modello 'persuasivo' e 'asimmetrico' di comunicazione di cui oggi qualcuno di noi (ed io fra questi) vorrebbe alleggerire il peso sulla nostra identità professionale. E' anche vero, ed è splendida la sua risposta sorniona all'intervistatore, quando dice solo una parte di verità:"il termine public relations counsel l'ho inventato io quando mi sono reso conto che quello di 'propaganda', dopo il nazismo, non era più politicamente corretto..".In questa risposta c'è tutto Bernays: l'autocompiacimento perché sapeva che l'intervistatore e l'ascoltatore, incompetenti, avrebbero interpretato 'le relazioni pubbliche le ho inventate io' mentre in realtà aveva solo (e comunque non è poco!) aggiunto quel counsel per sottolinearne la professionalità; la manipolazione delle date poiché quell'intervista risale al 1992, e di sicuro Bernays conta sull'effetto 'appiattimento del tempo' dell'ascoltatore quando accomuna l'abbandono del termine propaganda (assumendosene la paternità..) con il nazismo.Insomma, come ogni vero prestigiatore, non dice bugie, ma neppure la verità e rimane nella verosimiglianza. Sapeva bene che l'intervistatore voleva sentire certe cose e lui gliele ha dette senza scorrettezze gravi, soltanto con qualche peccatuccio veniale.Ancora una fra le tante chicche sul personaggio: è bellissimo l'esordio della sua ultima intervista pubblica (sempre del 1992) al David Letterman Show. Il famoso anchorman, mentre Bernays si accomoda sulla fantozziana poltrona (chissà quante decine di volte aveva provato quella scena prima!), lo apostrofa come Doctor Bernays (i lettori sanno che l'uso del termine doctor in inglese è assai raro e comunque legato a competenze specifiche nel campo medico o comunque accademico..che Bernays non aveva) e lui immediatamente coglie la palla al balzo per passare a guidare e non subire l'intervista: 'il fatto che lei mi chiami Doctor non solo mi fa piacere, ma aumenta enormemente la mia credibilità nei suoi telespettatori, grazie!'Ma veniamo ora al cuore del discorso.Non si può negare, e l'intero documentario è accompagnato da un filo rosso di continue considerazioni di Stuart Ewen, il più noto, intelligente e corrosivo critico del ruolo delle relazioni pubbliche nella società contemporanea (tutto da leggere, per chi non l'avesse fatto, il suo PR, The Social History of Spin!) che in questi 100 anni le relazioni pubbliche hanno svolto un ruolo storico perlomeno definibile come 'ambiguo'.Parimenti non si può negare che, sempre in quel periodo e grazie anche alle teorie e alle tecniche di Bernays e altri, le società in Occidente hanno percorso un enorme balzo in avanti in termini di qualità di vita e di benessere. Il marketing, che deve più a Bernays di chiunque altro, ha consentito alle economie di crescere, ai consumi di lievitare e alle democrazie di consolidarsi. Certo non si negano gli effetti collaterali. Al contrario, soprattutto in questi ultimi dieci, quindici anni, le relazioni pubbliche sono state oggetto di feroci e continuate critiche sociali e non hanno saputo argomentare - proprio loro! - una piena legittimità sociale.Del tutto casualmente, il documentario di Adam Curtis è stato trasmesso dalla BBC nello stesso anno (2002) in cui la comunità professionale internazionale delle relazioni pubbliche dava vita alla Global Alliance l'organizzazione ombrello delle associazioni professionali nazionali con il compito di promuovere standard globali di qualità della professione.E, ancora nel 2002, usciva in Europa quel Bled Manifesto  di Betteke Van Ruler e Dejan Vercic in cui si delineava una 'via europea' alle relazioni pubbliche e James Grunig, con un primo saggio uscito su Global Public Relations Handbook, poneva le basi di una nuova teoria globale delle relazioni pubbliche fondata su un modello tutto affatto diverso rispetto a quello bernaysiano: quello a due vie e simmetrico che prevede l'ascolto degli stakeholder da parte dell'organizzazione prima e non dopo avere deciso gli obiettivi operativi.In questi ultimi tre anni, mentre la scuola 'critica' ha imperversato ovunque, sfruttando alla meglio ciascuna delle rovinose cadute professionali di nostri colleghi assai più sensibili ai titoli di giornale che non alla qualità del loro lavoro, ma non è andata oltre l'argomento di fondo che l'applicazione pervasiva delle relazioni pubbliche ha in effetti complicato anziché favorito il processo democratico (e scusate se è poco, ma non è nuovo), la comunità internazionale delle relazioni pubbliche ha compiuto quelli che a me paiono importanti passi in avanti che vorrei qui ricordare: a partire dall'approvazione del protocollo etico globale della GA approvato al Primo Festival Mondiale di Roma; allo sviluppo di un approccio asiatico e poi uno africano alle relazioni pubbliche; alla ulteriore elaborazione della teoria globale; fino al Secondo Festival Mondiale di Trieste dedicato alla diversità, i cui due manifesti - uno prima e uno dopo il Festival - affermano con forza una profonda revisione del modello bernaysiano dominante delle relazioni pubbliche e un progressivo passaggio dal paradigma classico della comunicazione-a a quello della comunicazione-con.E' certo presto per dire se siamo o no su una strada praticabile e soprattutto se saremo o no capaci di convincere la parte più importante della nostra comunità professionale ad allungare il passo.Come ha riconosciuto recentemente anche Richard Edelman lo status quo della nostra professione è insostenibile. Staremo a vedere.Intanto mi permetto di suggerire alla Ferpi, ma anche direttamente alle Università e, perché no, anche alle aziende più consapevoli di richiedere le cassette del  Secolo del Sé alla BBC per le loro biblioteche.(tmf) 
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