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De Bortoli: giornalisti-comunicatori, meno pregiudizi!

16/07/2009

In alcuni passaggi del suo primo editoriale il direttore del Corriere della Sera ha acceso i riflettori sul lavoro dei comunicatori. A lui, che è uno dei più autorevoli interlocutori dei relatori pubblici, abbiamo rivolto alcune domande sul rapporto tra le due professioni e sullo scenario futuro dell’informazione.

di Giancarlo Panico e Fabio Ventoruzzo


Un ritorno, quello alla direzione del Corriere, con un editoriale tagliente verso la consuetudine della nostra classe dirigente a esaltare il giornalismo quando espone le magagne degli altri. Un j’accuse anche nei confronti delle relazioni pubbliche che spesso alimentano questi perversi e distorti comportamenti comunicativi?


Io non ho rivolto alcuna accusa specifica al mondo della comunicazione per il quale ho grande rispetto. Svolge una funzione democratica essenziale. Rappresenta interessi costituiti e legittimi. Spiega, e dunque difende, il ruolo di molte istituzioni. Dà voce a categorie che spesso non appaiono sui media. Contribuisce alla trasparenza e alla responsabilità sociale delle imprese. Ma credo che le due professioni, il comunicatore e il giornalista, debbano essere più separate e distinte.


Dobbiamo evitare confusioni e ambiguità. So benissimo che molti comunicatori sono anche giornalisti, professionisti o pubblicisti, ma quando, e accade di frequente, le due funzioni si sovrappongono, ne siamo tutti danneggiati. Ne perde la nostra immagine. La vostra agli occhi del committente, che equivoca sulla natura dei rapporti fra uffici stampa e giornali. La nostra perché il lettore pensa, e qualche volta non a torto, che quello che scriviamo può essere solo prolungamento acritico di quanto un’ impresa o una istituzione comunica all’esterno. Ne discutiamo poco. C’è molta ipocrisia. Sarebbe opportuna una riflessione comune.


Una maggior distinzione dei ruoli. Questo è il punto fondamentale del suo editoriale?


Non dobbiamo dimenticare che l’informazione è una lunga catena che spesso comincia da voi, da ciò che decidete di spiegare all’opinione pubblica di un’impresa, di un personaggio, di un insieme di interessi costituiti e legittimi. La vostra responsabilità è grande perché mediate tra ciò che il vostro cliente vorrebbe dire o non dire e le aspettative dei media, che spesso, e aggiungo meno male, sono diverse e confliggono. Se sui giornali e alle tv appare qualcosa di impreciso e incompleto la colpa è certamente nostra.
Ma mi aspetterei, e in qualche caso accade lo devo riconoscere, un maggiore senso di responsabilità del mondo della comunicazione. Se esce qualcosa di inesatto, incompleto e reticente, può accadere che il vostro cliente sia soddisfatto. Ma se l’opinione pubblica è informata male la nostra società peggiora. Peggiorano i cittadini, i consumatori, i risparmiatori.


Per la classe dirigente italiana l’informazione è un male necessario, un fastidio, un intralcio della vita quotidiana. Forse voi dovreste fare uno sforzo maggiore per spiegare a presidenti e amministratori delegati che dove on c’è trasparenza vincono i peggiori e prosperano i furbi.
Chi lavora duramente e innova no. Generalmente ne esce con le ossa rotte. Io riconosco alla
comunicazione d’impresa una capacità di rinnovamento, anche culturale, che qualche volta ai giornali, impigriti nella loro rendita di posizione, è mancata. Se la nostra sensibilità ha toccato argomenti, persone e fenomeni sociali prima sconosciuti, spesso lo dobbiamo a voi. Non sono poche le occasioni nelle quali i miei colleghi sottostimano o addirittura non riconoscono i vostri meriti. E ciò è imperdonabile. Ma dovete fare di più, dobbiamo fare di più, per rendere più corretta e onesta la catena informativa della quale siamo parte.


Ne “Lo specchio infranto”, il libro-ricerca di Toni Muzi Falconi e Chiara Valentini, si indagano i rapporti tra relazioni pubbliche e giornalismo: una relazione indispensabile, meno sofferta rispetto ad altre realtà, ma pur sempre ricca di coni d’ombra: (giornalisti che fanno i comunicatori e comunicatori che fanno i giornalisti). Che fare per uscire da queste ambiguità professionali?


Hanno perfettamente ragione Chiara Valentini e Toni Muzi Falconi. Le zone d’ombra deprimono la nostra immagine e impoveriscono il nostro valore professionale agli occhi dell’opinione pubblica. Spesso discutiamo del costo dell’informazione scorretta, della sovraesposizione di aziendee personaggi, mai ci confrontiamo sul costo per la società della non informazione. Dove non c’è informazione i diritti soggettivi e le libertà sono meno tutelati.


Cosa chiede ai suoi giornalisti nel rapporto con i comunicatori e con gli uffici stampa?


Come prima cosa il massimo rispetto del lavoro altrui. Un rapporto di pari dignità, senza atteggiamenti ambigui. Trovo corretto che si quoti, si riporti l’opinione del portavoce. E’ una buona abitudine. Pessima quando il pensiero del portavoce viene fatto proprio, acriticamente, da chi scrive. Faremmo un deciso passo avanti se nella prassi italiana si usasse di più, senza doppi o tripli significati il “no comment” aglosassone. Troppe volte si fanno scivolare notizie e commenti al giornalista senza assumerne la paternità. Troppe volte gli articoli sono frutto di rapporti amicali fra comunicatori e giornalisti che decidono, con eccessiva leggerezza, di abdicare ai loro rispettivi ruoli.


La confusione tra informazione e comunicazione di cui è vittima la classe dirigente del Paese – ancora esorcizzata nel suo primo editoriale – è uno dei vulnus anche delle relazioni pubbliche. Un richiamo al senso di responsabilità professionale (prima ancora che deontologica) di noi relatori pubblici o dei giornalisti?


Il mio è un richiamo al senso di responsabilità di entrambe le categorie. Ma anche un’ammissione delle nostre colpe. Diamo vita a una riflessione comune che difenda le buone ragioni delle nostre professioni anche nei confronti del mondo della pubblicità. Cerchiamo insieme di dimostrare a tutti che una buona informazione, corretta, con gli interessi legittimi bene esposti e non mascherati o addirittura negati, aiuta una società a stare meglio e premia le buone imprese e le istituzioni più valide.


I media sono i principali intermediari tra le organizzazioni, la politica, il mercato e la società. Anche alla luce dei profondi cambiamenti degli ultimi anni e della diffusione di nuovi media, quali sono secondo lei gli scenari futuri? Il giornalismo, il tradizionale rappresentante dell’opinione pubblica, come può rinnovarsi per rispondere a questa nuova sfida?


Siamo di fronte a un cambiamento epocale, ma non credo che i giornali spariranno tanto in fretta. Dico sempre che vengono da lontano ma non appartengono al passato. A patto che cambino. E non poco. Lo sviluppo della Rete amplia la libertà di fruizione di informazioni in tempo reale. Il lettore o il navigatore ha la sensazione di essere testimone diretto della realtà. Ma spesso scopre di essere travolto da un rumore di fondo indistinto che gli impedisce di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, di separare il lecito dall’illecito, il sostanziale dall’effimero. E non a caso accede al sito web di un quotidiano.
Ha bisogno di un’ informazione certificata. Può divertirsi a fare surf su notizie e video, ma se vuole approfondimenti critici ha bisogno di una fonte professionale. Il buon giornalismo sarà riconoscibile anche in Rete. E la buona informazione riuscirà a dimostrare di meritare un valore d’uso, cioè di essere diffusa a pagamento, anche sulla Rete. Ci vorrà del tempo.


Ai quotidiani e ai settimanali, alla carta stampata in genere toccherà un ruolo di maggiore approfondimento. Saranno di più strumenti di lavoro e assolveranno anche al compito di dare una risposta identitaria al proprio lettore. Un lettore che grazie al quotidiano si sentirà di appartenere di più a una comunità di valori, di culture e tradizioni, in un mondo affollato di format globali e di marchi internazionali. Si sentirà più cittadino. Se sapremo innovarci lo dovremo anche i vostri consigli, alla vostra esperienza di interpreti del cambiamento e di intercettori di umori, gusti e tendenze.


(ha collaborato Donatella Giglio)
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