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Diamo un senso alle parole

26/04/2016

Toni Muzi Falconi

La reputazione degli organi di regolazione e controllo, il ruolo di Consob e Banca d’Italia e il valore della reputazione come capitale sociale sono stati i temi al centro dell’intervento di Toni Muzi Falconi, durante il convegno sull’argomento, organizzato da Gruppo Caffè e da ASSOTAG, lo scorso 26 aprile a Roma.

"I problemi italiani derivano soprattutto dal fatto che Bankitalia e Consob hanno permesso la vendita di troppi titoli ad alto rischio mascherato (i bond subordinati), e questo è successo soltanto in Italia", così Stefano Feltri quattro giorni fa su Il Fatto, riferendo le dichiarazioni del commissario UE alla concorrenza la danese Margrethe Vestage.
Parto da qui per sottolineare quello che dovrebbe essere ovvio, ma viene spesso dimenticato da chi in Italia – a diverso titolo - ha responsabilità di esprimere opinioni e assumere decisioni che impattano sugli altri: il mercato bancario e finanziario italiano è solo una minuscola componente di un gigantesco sistema globale… che sfugge a qualsiasi, anche la più benevola, interpretazione del termine "accountability".

Non è certo casuale che solo qualche settimana fa a Davos, alla presentazione del Trust Meltdown Report VII - 2016, si è scoperto che l’industria bancaria globale, nonostante la sua ripresa ‘reale’ del 2014 e 2015, ha peggiorato il proprio rating reputazionale.

Secondo l’analisi di Media Tenor International, i media globali trasmettono oggi del sistema bancario una reputazione peggiore di quella dell’ISIS, dell’industria della droga, delle armi, del tabacco e farmaceutica…

Sicuramente la reputazione del sistema bancario nel nostro Paese risente di questo, ma – come abbiamo già indicato prima citando Feltri - l’Italia ha anche le sue specificità.

Parliamo allora di cosa è la reputazione, di come la si valuta e di come - se solo ne fossero consapevoli - Consob e Banca d’Italia potrebbero ‘pungolare’ il sistema interpretando la reputazione anche come strumento di controllo sociale.

Per prima cosa, la reputazione è ben diversa dalla identità, o dalla immagine.

  • L’identità è l’insieme dei fondamentali di un soggetto (storia, missione, visione, strategia, valori guida: epigenetica)

  • L’immagine è quello che gli altri ‘percepiscono’ del soggetto attraverso l’esperienza diretta o la sua comunicazione

  • La reputazione invece è ciò che gli altri dicono agli altri dell’organizzazione.


L’implicazione è che la reputazione è un giudizio, seppur mutabile, ma relativamente consolidato: al punto da permettere alle persone di sentirsi libere di esprimere quel giudizio con gli altri mettendo anche in gioco la propria reputazione.

E’ dai primi anni novanta del secolo scorso che gli studiosi del management e della comunicazione organizzativa dibattono la complementarietà o la contrapposizione fra la scuola delle relazioni e quella della reputazione, e il dibattito continua.

 

Negli anni è maturata in me la convinzione - anche grazie a molte esperienze concrete, professionali e sul campo - che la comunicazione è sì un importante strumento a diposizione dell’ organizzazione, ma lo è sopratutto al fine di creare relazioni con gli stakeholder (consapevoli, interessati e influenti sul raggiungimento dei suoi obiettivi).

Naturalmente, relazioni efficaci con gli stakeholder rafforzano la reputazione.

E’ raro, infatti, osservare organizzazioni di buona reputazione prescindere dal tentativo di governare con sagacia le relazioni con gli stakeholder orientandole al dialogo e al coinvolgimento attivo (bridging). Mentre può accadere che organizzazioni di scarsa o cattiva o non consapevole reputazione investano molto in attività tattiche di comunicazione orientate alla propria difesa (buffering).

E’ certo possibile monitorare la reputazione, individuandone anche i punti deboli e forti, ed è certo possibile operare per migliorarla, ma non è possibile gestirla perché la reputazione la determinano gli stakeholder.

In questa prospettiva sono proprio le relazioni che vanno migliorate, e queste non solo si possono monitorare e valutare, ma si anche gestire.

Gli indicatori che gli studiosi delle relazioni usano per valutane l’efficacia sono quattro:

1. la soddisfazione nella relazione,
2. l’impegno nella relazione,
3. la fiducia nella relazione,
4. l’equilibrio di potere nella relazione.

La rilevazione di questi indicatori (da 1 a 10, o da 1 a 100, o con altre scale) consente all’organizzazione non solo di valutare il punto di partenza, ma anche di decidere, per un certo periodo e a fronte di determinati investimenti di tempo e di risorse, obiettivi specifici da raggiungere e poi verificare se siano stati raggiunti.

Rispetto invece allo specifico della reputazione vi sono altri indicatori di valutazione. Forse i più aggiornati sono le sette dimensioni definite dal Reputation Institute:

  • qualità del prodotto/servizio,

  • qualità della sua innovazione,

  • qualità del luogo di lavoro,

  • qualità della sua governance,

  • qualità della sua responsabilità sociale,

  • qualità della sua direzione e

  • qualità della sua performance.


Sorge però un problema nella valutazione dei giudizi (ripeto non percezioni), visto che lo stesso Reputation Institute dice che oltre il 60% degli italiani non è in grado di esprimerli….

E’ quindi essenziale ascoltare con attenzione e prima ancora selezionare con accuratezza gli stakeholder veri, quelli che sono consapevoli e interessati a sostenere o ostacolare gli obiettivi dell’organizzazione ( e quindi verosimilmente in grado di valutare le variabili).

 

 

 

Può la reputazione di una organizzazione rappresentare - dal punto di vista dell’interesse pubblico e di quello dei pubblici interessati e consapevoli (stakeholder) - una forma di "controllo sociale" dell’organizzazione? Una domanda importante in un mondo dove il capitale sociale appare esausto e in via di estinzione.

Un inconsapevole e sostanzioso ‘assist’ è  venuto dalla recentissima intervista a Repubblica del direttore generale della Banca d’Italia dove riferendosi alla comunicazione dice, testuale:

Qui si poteva fare meglio, ed è una responsabilità che riguarda tutte le istituzioni, incluse quelle politiche. Nella nostra storia di Banca d'Italia, la riservatezza totale era un valore fondante, come per il resto delle banche centrali. Poi il mondo è cambiato, siamo entrati in una fase di trasparenza e comunicazione più organizzata. Venendo però da un mondo di quel tipo ed essendo ancora vincolati al segreto d'ufficio e istruttorio a volte incontriamo difficoltà. La comunicazione per chi fa il banchiere centrale è sempre difficoltosa. Stiamo imparando".

 

Prendendola alla lettera, si potrebbe dire che la reputazione (quel giudizio che gli altri esprimono di te quando non ci sei) del sistema bancario presso i suoi stakeholder sia pessima, anche perché "il mondo è cambiato e siamo entrati in una fase di trasparenza e comunicazione più organizzata".

Si aggiunga anche che la reputazione di Bankitalia (o di Consob) oggi  traballa anche perché sono pessime le reputazioni dei singoli istituti bancari che è chiamata a vigilare. Il controllore è sempre influenzato dai controllati e viceversa.

Sappiamo bene che i poteri reali della Banca d’Italia e della Consob sono ormai molto limitati, ma fra questi è sicuramente la facoltà di "nudging", inteso qui come potere di ‘pungolare’ i singoli istituti bancari, grandi e piccoli -promettendo premi e minacciando punizioni ai cda in base alle loro dinamiche reputazionali valutate secondo indicatori e criteri ormai validati e consolidati in tutto il mondo (per me assai criticabili…. ma comunque accettate).

In questo senso si può parlare, credo, di ruolo sociale della reputazione e di quest’ultima come componente del ‘capitale sociale’ di una nazione, di un territorio, di una istituzione, di una banca, di un gruppo dirigente, di un insieme di persone che ci lavorano. Un capitale monitorabile e valutabile come valore aggiunto o sottratto.

 
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