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E' uscito il nuovo numero di Communitas dedicato alla..."Critica della Social (ir) Responsibility".

15/11/2006

Presentiamo in anteprima l'editoriale firmato da Aldo Bonomi, una lucida e interssantissima analisi delle tre culture della responsabilità sociale.

Le fatiche di Paolo D'Anselmi - una delle più munifiche firme di questo sito, che da anni propone ai nostri lettori i suoi pungenti interventi (provate ad inserire il suo nome nel motore di ricerca del sito e ve ne renderete conto!) - hanno finalmente trovato una nuova veste editoriale.E' appena uscito, infatti, l'ultimo numero di Communitas, il mensile di Vita Non Profit Content Company, che Paolo D'Anselmi ha intitolato - nel suo stile provocatorio - 'Critica della Social (ir) Responsibility'.Per citare le parole di Toni Muzi Falconi, che ha curato la postfazione del volume, "[...] Paolo D'Anselmi ha pubblicato le sue opinioni sulla rendicontazione triple bottom line di molte organizzazioni, italiane e non. Quei pezzi, assai godibili e per nulla scaduti in attualità, sono qui organicamente riordinati e assemblati, e ne emerge una visione caustica e brillante degli sforzi di molte organizzazioni per raccontarsi come socialmente responsabili. I contenuti sono talvolta polemici, spesso provocatori e le opinioni non sempre ortodosse; ma per chiunque desideri migliorare la propria capacità di raccontarsi, il libretto è certamente utile".Per darvene un assaggio, proponiamo il testo integrale dell'editoriale di apertura, firmato dal direttore di Communitas Aldo Bonomi, dedicato ai tre modelli della responsabilità sociale.


"L'impresa appartiene alle persone che investono in essa, non ai dipendenti, ai fornitori, e neanche al luogo in cui è situata". Così si esprimeva Albert J. Dunlap, famoso dépeceur cioè tagliatore di teste e razionalizzatore di imprese - nella sua autobiografia/manuale per futuri managers delle grandi corporations. La tesi, nella sua semplicità, è chiarissima: nella globalizzazione, l'impresa ha vinto la sua personale guerra di indipendenza contro il territorio e gli attori che lo vivono. Se ne è svincolata e "appartiene" soltanto ai suoi shareholders, famiglie proprietarie o investitori finanziari. Ma se l'impresa acquisisce sempre più una natura di soggetto extraterritoriale, che ne è dei suoi obblighi sociali? Già, perché a fronte della nuova libertà di movimento del capitale, spesso per chi resta legato al territorio non rimane che riparare i danni e leccarsi le ferite. Nonostante la cesura rappresentata dalla globalizzazione, in realtà, quello della responsabilità sociale dell'impresa è un tema antico e ancora valido. Senza scomodarne le possibili radici nella scolastica medievale, l'idea del dovere di "rendere conto" da parte dell'élite economica data almeno all'avvento della modernità industriale.Tre culture della responsabilità sociale.
Vedo nell'evoluzione del capitalismo tre possibili modi di declinare il tema del rapporto tra economia e società e, oggi, tra globalizzazione e diritti sociali.
Un primo modo è tutto interno al pensiero del mercato. Si presuppone che il capitalismo sia un sistema dotato della capacità di autoregolarsi. E' una visione che sposta il potenziale conflitto tra shareholders e stakeholders (portatori di interesse) territoriali all'interno dell'impresa. Al centro vi è la figura dell'utente-cliente come dominus del mercato, attore autonomo dall'impresa capace di vincolarne l'azione minacciando (o attuando) strategie di uscita individuale non limitate alla valutazione della qualità dei prodotti ma estese anche al rispetto da parte dell'impresa delle sua sfera valoriale o degli interessi della società. E' una visione che ha radici profonde soprattutto nelle società anglosassoni dove ha assunto anche una veste giuridica attraverso le cosiddette class action di consumatori che, in quanto tali, divengono titolari di diritti.Sul lato opposto rispetto all'ottimismo di mercato c'è invece il pessimismo della "pedagogia della catastrofe", proposta dall'economista antropologo Serge Latouche come unico limite possibile alla divaricazione crescente tra potere dell'impresa e obblighi sociali. Il capitalismo, incapace di autoregolazione, corre come un bolide, all'impazzata, senza autista e senza freni verso la catastrofe non solo ambientale, ma prima ancora sociale e politica. E' una posizione di critica radicale all'idea che sia possibile pensare una responsabilità sociale dell'impresa e uno sviluppo sostenibile, considerato al più un ossimoro e nient'altro. Sono le sovraffollate città del terzo e quarto mondo ma anche i ghetti metropolitani dell'occidente dove crescono le economie informali della sopravvivenza, che ci preannunciano cosa sarà il futuro dell'economia globalizzata. E allora l'unica soluzione appare la decrescita: un taglio netto con l'idea stessa dello sviluppo.Nel mezzo, tra mercato e catastrofe, la prassi, storicamente tutta europea, del conflitto sociale e di un patto tra l'impresa fordista e una cittadinanza garantita dal welfare statale e dal lavoro salariato e normato. In questa terza ipotesi, era la capacità di organizzare gli interessi e le passioni collettive da parte delle grandi organizzazioni di rappresentanza sia del capitale che del lavoro ad assicurare una responsabilità sociale e territoriale dell'impresa, la quale però agiva non in quanto singola molecola del capitale ma come grande attore collettivo. E, tuttavia, questo schema è valso fino a quando a sorreggere l'impalcatura della rappresentanza e del welfare collaboravano nel conflitto una borghesia e una classe operaia che avevano nello Stato gestore e nello spazio nazionale il loro orizzonte di riferimento.
La globalizzazione ha cambiato le coordinate di fondo del sistema. La crisi della grande fabbrica fordista e il costituirsi di uno spazio globale di flussi economici che hanno la prerogativa di essere ubiquitari e plurilocalizzati e che mettono in relazione e talvolta impattano sui territori, fa sì che la dimensione del conflitto prevalente nel nuovo scenario non sia più, o non sia più soltanto, quella tra capitale e lavoro ma quella tra spazio dei flussi e spazio dei luoghi. E' in questa nuova sfera dell'azione sociale in cui un'economia dei flussi finanziari, delle imprese transnazionali, o delle grandi reti di trasporto si confronta con la coscienza e le identità di luogo più che di classe, che può ricollocarsi una visione e una pratica della responsabilità sociale del fare impresa all'altezza della sfida.
Ma a un patto: che, soprattutto nel caso italiano, la cultura della responsabilità sociale esca da una condizione spesso ridotta ad orpello di pratiche orientate in tutt'altra direzione. In questo senso il proliferare dello strumento del bilancio sociale spesso riduce questo strumento ad un puro adempimento. Credo che sia necessario, invece, un profondo ripensamento da giocare in direzione di una apertura a quella coscienza di luogo che oggi rappresenta il reale interlocutore.
Responsabilità sociale e modelli di capitalismo.
Dunque, necessita un doppio passaggio culturale. In primo luogo verso l'esterno, per creare una contaminazione tra le culture dei luoghi e quelle dell'impresa e farvi entrare il tema della qualità delle esistenze degli attori che il territorio su cui l'impresa agisce lo vivono. Poi verso il basso, per rendere adatta alle diversità dei modelli locali di capitalismo una cultura della corporate responsability che spesso appare lontana e un po' astratta, risentendo delle sue origini in una civilizzazione del capitalismo anglosassone centrata su grandi imprese e poco adatta, ad esempio, ad un sistema di capitalismo di territorio come il nostro.
La diversità, infatti, ha sempre caratterizzato il modo in cui i flussi dello sviluppo hanno impattato sui territori. Non si tratta di scimmiottare altri modelli di capitalismo che non ci appartengono. Non siamo, come già dicevo, un capitalismo anglosassone che ha maturato una specializzazione finanziaria centrata sul ruolo globale della Borsa di Londra o New York e che sulle prerogative degli shareholders dei flussi finanziari globali concentra tutte le sue energie. Non siamo neanche un capitalismo renano, che attraverso la cogestione tra grande impresa, grande banca, grande sindacato ha raggiunto una coesione sociale e un controllo della società sull'impresa molto elevati, ma non più riproponibili al di fuori della cornice fordista. Né siamo un capitalismo anseatico capace di raggiungere livelli elevati di innovazione e coesione sociale attraverso un connubio tra forte welfare statale e capacità innovativa di grandi corporations capaci di puntare su fattori chiave come intelligenze, conoscenza, creatività. E ci è estraneo anche il modello francese, che vede al centro della strategia economica il ruolo dello Stato attraverso i cosiddetti "campioni europei".
Quello italiano è invece un capitalismo di territorio composto per lo più da un arcipelago di medie imprese sovrastanti un oceano di piccole e piccolissime aziende e che tuttavia da sole o organizzate in gruppo, cerca di non interrompere i rapporti con il locale nel nome della proiezione internazionale. E' un modello che tenta di trovare soluzioni in grado di coniugare le lunghe derive antropologiche di una cultura d'impresa legata al territorio con la simultaneità della globalizzazione. E' d'altronde un modello di sviluppo che fin dalla genesi ha fondato la sua legittimità sul coniugare sviluppo e mantenimento della coesione sociale nelle comunità locali. D'altronde, è da notare, oggi che la competizione internazionale lo mette sotto stress, è proprio questo modello di capitalismo territoriale che ha sempre più necessità di una vera responsabilità sociale da parte di quello che è il nuovo attore economico in ascesa, un capitalismo delle reti che per sua natura si trova a cavallo tra flussi del mercato globale e responsabilità verso l'economia e la qualità del vivere dei territori. E' dentro le difficoltà e le peculiarità di questo modello, forse più adatto di altri ad interpretare le domande degli stakeholders di un territorio, che il tema della responsabilità sociale può essere giocato in termini nuovi.
Ma bisogna tenere conto che i diversi modelli "nazionali" nell'impatto con la globalizzazione hanno dato vita ad almeno quattro strade alternative di evoluzione. La via alta dell'high tech, fondata sulla potenza di grandi apparati ed enormi investimenti in innovazione e conoscenza in cui la risorsa competitiva per l'impresa è mettere al lavoro la nuda vita dei lavoratori della conoscenza; un modello adatto ad uno spazio competitivo globale che sovrasta i territori e le società locali. Oppure il neofordismo dei paesi emergenti, in cui il paradigma della responsabilità da far valere appare ancora il conflitto tra i due grandi soggetti collettivi del capitale e del lavoro; e intrecciato a questo, come l'altra faccia di uno sviluppo anch'esso prodotto dalle grandi transnazionali, il paradigma delle grandi periferie di cui già abbiamo accennato e in cui la responsabilità sociale non viene esercitata dai grandi attori di flusso ma rimane confinata nelle microeconomie di reciprocità e di sopravvivenza.
Infine, il paradigma delle produzioni complesse, possibile evoluzione dell'economia di territorio, in cui alla flessibilità, varietà e indeterminazione della risposta da parte delle economie locali alle sollecitazioni dei flussi globali fa riscontro una responsabilità sociale che apre al territorio e ne mette a valore le risorse. E' la comunità in questo caso lo stakeholder collettivo che apre la black box della governance interna dell'impresa, rendendola a sua volta attore dei processi locali. Un modello che, mi pare, può indicare una possibile via d'uscita.            
Aldo Bonomi
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