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Eni vs Report: dieci anni fa nacque il paradigma del crisis management attuale

15/12/2025

Daniele Chieffi

All’epoca, su questo stesso sito, il socio Giancarlo Panico aveva già raccontato come quel caso avesse segnato una svolta nei rapporti tra giornalisti e comunicatori. Oggi, con il senno di poi, torna sull’argomento il socio Daniele Chieffi, che all’epoca ricopriva il ruolo di Head of Social Media Management & Digital PR e Media Relations Business Retail Manager in Eni.

Dieci anni fa il caso Eni vs Report non è stato soltanto uno scontro tra un’azienda e una trasmissione televisiva. È stato il momento in cui, forse per la prima volta in modo così evidente, il sistema della comunicazione italiana si è trovato davanti a una verità nuova e scomoda: le crisi non si giocano più solo sui fatti, ma sul modo in cui quei fatti vengono percepiti, raccontati e discussi.

 

Quella sera decidemmo di abbandonare il format classico della risposta che seguiva l’accusa e iniziammo a rispondere, in diretta, punto su punto, attraverso i social, alla trasmissione. Tutto accadde durante la puntata di Report andata in onda il 13 dicembre 2015, in cui la trasmissione di Rai3 accusò Eni di una presunta vicenda di tangenti legata all’accordo per la licenza del blocco petrolifero OPL245 in Nigeria.

 

L’inchiesta, in onda in prima serata su Rai3, avrebbe generato un’immediata esposizione pubblica. Ma ciò che rese quel caso diverso da molti altri non fu tanto il contenuto dell’accusa, quanto il contesto in cui sarebbe esplosa: un ecosistema già pienamente immerso nella logica del second screen, con Twitter e i social media che accompagnavano la visione televisiva, amplificando e reinterpretando ogni passaggio in tempo reale.

 

In quel momento si compì una scelta che oggi appare quasi ovvia, ma che allora non lo era affatto: non aspettare che la crisi si sedimenti, non limitarsi a una replica postuma, ma intervenire mentre la narrazione stava nascendo, presidiando il tempo, lo spazio e il significato della conversazione.

 

È qui che prende forma il modello Eni vs Report.

La strategia non si fondò su una risposta emotiva né su un duello mediatico diretto con la trasmissione. Al contrario, partì da un presupposto radicalmente nuovo: non era in corso una crisi mediatica, ma una crisi reputazionale ad alta intensità conversazionale. Il rischio non era solo “cosa veniva detto”, ma come quel racconto si sarebbe fissato nella percezione degli stakeholder.

 

Da questo assunto derivò un impianto strategico che anticipa molte delle tecniche oggi considerate standard nel crisis management.

 

Durante la messa in onda, l’azienda entrò immediatamente nella conversazione digitale, soprattutto su Twitter. Non per polemizzare, ma per contestualizzare, chiarire, fornire dati e documenti, rispondere punto per punto agli elementi più critici dell’inchiesta. Il tutto in tempo reale, con contenuti preparati in anticipo, rilasciati secondo una scansione precisa. Non improvvisazione, ma regia.

 

Parallelamente venne costruito un vero e proprio polo informativo: una sezione dedicata sul sito aziendale, che raccoglieva in modo ordinato la posizione ufficiale, i documenti, le spiegazioni di dettaglio. Tutta la comunicazione social rimandava lì, creando un luogo stabile e autorevole in un contesto dominato dalla frammentazione.

 

Questa combinazione – intervento real time e profondità informativa – rappresenta uno dei punti di svolta del modello. Oggi la chiameremmo content hub, allora era semplicemente un modo nuovo di fare chiarezza senza inseguire il rumore.

 

Un altro elemento centrale fu la gestione consapevole della polarizzazione. La strategia non cercò il consenso unanime, né tentò di convincere ogni detrattore. Accettò che la crisi producesse divisione e prese una decisione cruciale: parlare in modo diverso a pubblici diversi. Media, istituzioni, comunità digitali, opinion leader, dipendenti. Nessun messaggio unico, ma una coerenza di fondo declinata per stakeholder.

 

Anche questo è oggi un caposaldo del crisis management moderno: riconoscere che non esiste “il pubblico”, ma una pluralità di pubblici con aspettative e chiavi di lettura differenti.

 

Accanto alla voce corporate, vennero utilizzate anche voci personali e riconoscibili, capaci di rendere la comunicazione più umana senza perdere autorevolezza. Una scelta che anticipa il tema, oggi centrale, dell’autenticità percepita e del ruolo dei portavoce nell’ecosistema digitale.

 

Tutto questo, però, non sarebbe stato possibile senza un ultimo elemento, spesso trascurato quando si raccontano le crisi: il gioco di squadra. Il modello Eni vs Report funzionò perché la strategia fu condivisa, sostenuta e applicata in modo coordinato da comunicazione, management, area legale e strutture interne. Le crisi reputazionali non si governano con un colpo di genio individuale, ma con un’organizzazione che regge la pressione e agisce come un sistema.

 

A distanza di dieci anni, il valore di quel modello non sta solo nell’esito di quella specifica vicenda, ma nella sua attualità sorprendente. Intervento in tempo reale, presidio della conversazione, centralità della percezione, gestione della polarizzazione, comunicazione per stakeholder, contenuti strutturati, squadra integrata: sono esattamente i pilastri su cui oggi si costruiscono le strategie di crisis più efficaci.

 

Per questo Eni vs Report non è soltanto un caso di cronaca o una buona pratica del passato. È un paradigma. Un momento in cui si è preso atto che l’infosfera aveva cambiato le regole del gioco e che continuare a gestire le crisi con strumenti analogici in un mondo digitale avrebbe prodotto solo sconfitte.

 

In buona sostanza, dieci anni fa non si è semplicemente “risposto” a un’inchiesta. Si è dimostrato, sul campo, che la crisi non si spiega. La crisi si governa.

 

 

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