Il Giorno della Memoria e l’ingenuità della rete
25/01/2012
Tra pochi giorni ricorrerà l’anniversario dell’ingresso dell'Armata Rossa ad Auschwitz, da dodici anni noto come _Giorno della Memoria._ Nato per non dimenticare gli orrori dell’Olocausto, porta con sé una riflessione più ampia, non solo sugli stermini nei lager nazisti ma sulle radici culturali che portarono l’Europa del secolo scorso ad una simile tragedia. _Andrea Ferrazzi_ evidenzia alcune analogie tra la storia di allora e quella attuale e suggerisce alcuni spunti.
di Andrea Ferrazzi
“La storia, dall’antichità al presente, è ricca di testimonianze della disinvoltura con cui gli uomini possono uccidere altri uomini, e persino trarre piacere dalla loro morte. Non c’è motivo di ritenere che l’uomo moderno, occidentale, persino cristiano, sia incapace di condividere ideologie che svalutano la vita, auspicandone l’annientamento, ideologie peraltro simili a quelle propugnate dagli esponenti di tanti movimenti religiosi, culturali e politici in tutto il corso della storia”. Così scriveva Daniel Johan Goldhagen, nel suo provocatorio libro I volenterosi carnefici di Hitler, pubblicato in Italia esattamente quindici anni fa. Provocatorio perché la tesi di fondo era in qualche modo una stecca nel coro degli studi sull’Olocausto. Il giovane storico di Harvard sosteneva, infatti, che per spiegare quanto accaduto era necessario comprendere le convinzioni e i valori comuni nella cultura tedesca, e in particolare quelli che diedero forma all’atteggiamento nei confronti degli ebrei. Secondo lo studioso americano, le radici dell’antisemitismo tedesco erano profonde, e risalivano almeno all’Ottocento, quando c’era “la convinzione che gli ebrei costituissero un pericolo estremo per la Germania, e che l’origine di tale pericolo fosse immutabile, cioè razziale”. Tali sentimenti emersero in modo ancora più drammatico nei primi anni Venti del Novecento, quando la Germania visse una crisi economica devastante.
Goldhagen non è l’unico a ricordare come molti tedeschi attribuissero anche agli ebrei la responsabilità di una situazione segnata dalla lenta agonia del marco e da un’inflazione galoppante che mise a rischio la sopravvivenza stessa di larga parte della popolazione. In un volume del 1975 appena ristampato, lo storico inglese Adam Fergusson racconta in modo ineccepibile quel “manicomio finanziario”, ricordando più volte come la colpa dell’aggravarsi delle condizioni fosse attribuita non alle fallimentari politiche economiche del governo, ma alle condizioni della pace. E agli ebrei, ritenuti un “pericolo per il benessere dei tedeschi”, come scrive ancora Goldhagen.
Non so se abbia ragione lo scrittore francese Paul Morand, quando dice che “la storia, come un idiota, meccanicamente si ripete”. E’ però del tutto evidente che l’attuale crisi dell’euro rende quanto mai attuale il saggio di Adam Fergusson, intitolato Quando la moneta muore. Non è un caso, del resto, se in occasione della sua ripubblicazione The Times consigliasse al primo ministro inglese di tenerne una copia in ogni stanza della sua residenza estiva.
Naturalmente nessuno si augura la fine della moneta unica europea. Però questo è uno scenario tutt’altro che impossibile. E le conseguenze per le popolazioni sono difficilmente immaginabili. Leggere quanto successo in Germania nei primi anni Venti del secolo scorso mette i brividi. E pone in evidenza come sia fondamentale non abbassare la guardia sulle reazioni irrazionali della popolazione. Soprattutto nell’epoca del web e dei social network, dove si affermano e si radicano, senza controllo, teorie e posizioni pericolose. Come ricorda Evgeny Morozov in un recente articolo pubblicato dall’inserto domenicale del Corriere della Sera, “le persone che negano che si stia verificando un riscaldamento globale, che si oppongono alla teoria dell’evoluzione di Darwin, che si rifiutano di vedere il collegamento tra il virus Hiv e l’Aids, o pensano che l’attacco dell’ 11 settembre sia stato frutto di trame interne, hanno ampiamente utilizzato Internet a loro vantaggio”.
Nel Giorno della Memoria, ritengo sia utile interrogarsi su cosa potrebbe accadere, nell’epoca del web, se le tensioni sociali aumentassero in seguito alla malaugurata fine dell’euro o, più semplicemente, all’aggravarsi della crisi economica. La piazza virtuale potrebbe essere sedotta da posizioni tanto false quanto seducenti e pericolose? A ben vedere, questo interrogativo ne comporta un altro più generale: siamo davvero sicuri che internet sia, di per sé, uno strumento utile alla democrazia? Il dibattito è aperto.