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Informazione online: la bufala dell’imprenditore suicida

22/05/2012

L’imprecisione o la mancata verifica della veridicità delle notizie può portare gravi danni reputazionali. _Daniele Chieffi,_ analizzando il recente caso che ha riguardato un istituto di credito italiano, indica nell’approfondimento e nella correttezza gli unici strumenti in grado di risollevare le sorti dell’informazione italiana.

di Daniele Chieffi
Recentemente, durante l’assemblea di un grande istituto bancario, un piccolo azionista ha preso la parola e ha accusato la banca di averlo messo sul lastrico con un’errata segnalazione in centrale rischi e, per questo, lo stesso imprenditore stava seriamente pensando di togliersi la vita. A sostegno della sua tesi diceva di aver portato anche la banca in giudizio per ben due volte e di aver vinto ambedue le cause. Sentenze favorevoli alle quali l’Istituto di credito non aveva comunque dato seguito.
Ovviamente la notizia e’ rimbalzata su tutti i media. Troppo gustosa e troppo tempista in una stagione di suicidi degli imprenditori (ma anche qui val la pena di approfondire tramite il fact checking di Giorgio Meletti).
Sulla Rete le dichiarazioni di questo imprenditore strozzato dalla banca hanno innescato una sequenza di post di blogger e di commenti al vetriolo. Tutti indignati contro la banca affamatrice e vicini al dolore dell’imprenditore.
Il problema e’ che le cose non stavano come sosteneva l’imprenditore. Per ovvie ragioni di privacy non e’ corretto scendere nei dettagli ma non fu la banca a far fallire l’azienda, la segnalazione non era errata, perfino le due cause che sosteneva di aver vinto, in realtà l’imprenditore le aveva perse ed era anche stato condannato al risarcimento delle spese legali della banca, cosa più unica che rara.
Insomma tutta un’altra storia, raccontata ad arte per “forzare la mano alla banca” e ottenere migliori condizioni nella transazione. Cosa fa allora il buon addetto stampa online? Attiva le sue relazioni con blogger e influencers della Rete, con redazioni online e giornalisti per spiegar loro che le cose stavano in maniera diversa. Arriva sino a mettere a disposizione le due famose sentenze (atto pubblico a disposizione di tutti, giornalisti compresi). La risposta? All’inizio “Me lo devi provare”. Ma come, dice sorpreso il bravo addetto stampa, “tu hai sparato su di noi sulla base solo delle dichiarazioni di una persona ma chiedi a me, che sono una fonte ufficiale, una prova? E sia – decide al fine il buon addetto stampa – ti prendo io le sentenze (ma non dovrebbe essere chi fa informazione a verificare le notizie?), te le mando per mail”. Nel frattempo passavano le ore e poi anche i giorni e i post al veleno, con sotto incodati decine di commenti rimanevano li’, anzi, venivano indicizzati dai motori di ricerca e si viralizzavano sui social network.
Alla fine qualcuno, ma non tutti, il post riparatore lo scrive, a tempo perso, in linea la notte e subito “abbassato” con altri post sopra. In fondo, ammettere di aver sbagliato è esercizio fastidioso per tutti. I mainstream? I grandi quotidiani online? Beh quelli non ci tornano su una notizia così, neanche a parlarne.
Questa storia apre alcune riflessioni piuttosto gravi. La prima riguarda un personaggio piuttosto discutibile che ha sfruttato una platea pubblica come l’assemblea di una grande azienda per propri scopi personali ed e’ riuscito a usare i media per i suoi scopi. Media che si sono lasciati docilmente strumentalizzare e che non hanno perso un secondo a verificare quello che affermava, salvo, misteriosamente, chiedere le “prove” a una fonte ufficiale.
Dal punto di vista delle media relations si tratta di un caso su cui val pena di riflettere. Come si affronta e si gestisce il cattivo lavoro dei media? Che strumenti ha un addetto stampa che, a ragione, tenta di difendere la reputazione dell’azienda che rappresenta? Il danno reputazionale e’ infatti evidente e irrecuperabile, il pubblico e’ definitivamente convinto che la banca abbia confermato il proprio ruolo di affamatrice senza scrupoli. Sarà magari vero ma non stavolta.
L’ultima considerazione va ai blog, che più di altri hanno cavalcato la notizia e, mai come in questa situazione, sono andati a rimorchio dei media ufficiali. La recente sentenza della Cassazione ne ha, giustamente, riconosciuto il ruolo specifico e diverso da quello dei giornali online ma questo non toglie che chiunque scriva e faccia informazione, soprattutto quando si possa definire un influencers, qualche responsabilità la abbia. Il solo fatto di non essere una testata registrata, un media “ufficiale”, non esime chi scrive ed è in grado d’influenzare il giudizio e la visione della realtà di un proprio pubblico, dalla verifica delle informazioni, dall’approfondimento e dalla trasparenza e correttezza.
Quello che è accaduto in questo particolare caso è un pessimo segnale per la qualità dell’informazione italiana tutta, sia off line (le agenzie sono state le prime a rilanciare la notizia, seguite dai quotidiani del giorno dopo) ma soprattutto online. E’ sul Web, infatti, che si è prodotta la ferita più profonda. I blog si sono dimostrati uguali a quell’informazione ufficiale che tanto vituperano e, così facendo hanno scolpito su pietra (la lunga e indelebile memoria di Internet) una bufala. Fra anni, lanciando come stringa di ricerca il nome della banca continuerà a saltar fuori la questione, falsa, dell’imprenditore.
Sono episodi come questi che danno ossigeno ai sostenitori del bavaglio all’informazione online e si può ben dire che il principale nemico dell’informazione online italiana (ma anche di quella off, come si è visto) sia la scarsa qualità, la superficialità, la cialtroneria e scarsa professionalità, intesa come consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie responsabilità.
Tratto da OLMR
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