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Innovare la cultura aziendale della valutazione in italia

11/09/2009

Diffondere e riformare la cultura aziendale della valutazione nel nostro Paese è un’esigenza sempre più avvertita nell’intero settore. Ma come ci spiega nelle sue riflessioni Michele Rossi, Chief Marketing Officer BeWebCom Corporation, la mancanza di un approccio condiviso sulle metodologie di analisi delle performance e sulla valutazione dei ritorni degli investimenti in comunicazione genera resistenza al cambiamento.

di Michele Rossi


Prendendo spunto dall’interessante articolo di Luca Poma di qualche giorno fa (e dai numerosi commenti che ne sono scaturiti), vorrei condividere con voi alcune mie riflessioni in merito all’analisi del ritorno degli investimenti in comunicazione in Italia, per sviluppare una visione più allargata sullo stato della comunicazione aziendale.


Ad esempio in ambito pubblicitario, tranne alcuni casi (anche autorevoli), nel nostro Paese non si è mai fatto molto uso di strumenti di ricerca pre e post-airing per l’analisi degli impatti di branding, né si è mai troppo cercata una correlazione tra investimenti pubblicitari e redemption. Anzi, tale correlazione è non di rado ridotta a una mera valutazione dell’impatto immediato sulle vendite, mentre gli effetti indiretti o posticipati nel tempo sono spesso ignorati.
Che ciò avvenga per esigenze di ottimizzazione dei budget pubblicitari (“meglio comprare qualche spazio media in più e toglierli alle ricerche”) o per malcelato timore degli uomini di comunicazione di dover rendere conto di risultati quantitativi al proprio CEO, è un dato di fatto che la situazione italiana è piuttosto stagnante.


Tale immobilismo sembra essere diffuso anche nel mondo delle relazioni pubbliche, ancora troppo spesso legato a certi paradigmi del passato. È pur vero che in questi ultimi anni le analisi dell’efficacia basate sul numero delle uscite editoriali e dello spazio occupato si sono arricchite di nuovi importanti indicatori di performance quali-quantitativi (si veda ad esempio l’autorevole ricerca di Stefania Romenti sul tema).
Tuttavia, la mancanza di un approccio condiviso nel settore non contribuisce certamente a diffondere e innovare la cultura aziendale delle relazioni pubbliche. Perché questa resistenza al cambiamento? Mancanza di accordo degli operatori sulle metodologie di analisi delle performance, o voluto freno all’innovazione, nel nome dell’appartenenza della practice a un filone umanistico e non (para)scientifico?


Come Poma ricorda parlando di “tailored media”, le tecnologie digitali contribuiscono a modificare profondamente il rapporto audience – mezzo – comunicatori. Se è vero che oggi, in molti contesti, l’audience diventa mezzo – si pensi agli innumerevoli esempi di blogging amatoriale e di tweeting legati alle cronache (spesso drammatiche) dei nostri giorni -, si avverte allora la necessità che i comunicatori professionisti diventino essi stessi parte del mezzo (e quindi della audience).
Anche qui gli esempi sono molteplici, dall’utilizzo dei social media da parte di Obama nella campagna presidenziale americana, al movimento d’opinione di Beppe Grillo nel nostro Paese, in grado di uscire dall’ambito del virtuale per riempire piazze e teatri.


Mi domando: se è già così difficile arrivare ad una matura e diffusa cultura legata alla valutazione dei ritorni degli investimenti verso i mezzi, come arrivare ad una moderna visione della comunicazione aziendale all’interno dei mezzi? In altre parole, come è possibile far sì che le organizzazioni si facciano esse stesse mezzo per raggiungere le proprie audience, quando non si è ancora giunti a una piena valutazione degli investimenti nella comunicazione di stampo tradizionale, dove l’audience è considerata dietro ai mezzi? In conclusione, per dirla con Kaplan e Norton, “you can’t manage what you can’t measure, and you can’t measure what you can’t describe”.


La tendenza sembra essere la preservazione di approcci aziendali perpetuati dalle generazioni dei manager precedenti, sapientemente modificati in modo lento e impercettibile dal lavorìo delle generazioni successive, in una lunga staffetta che vede passare al successore il rischio del cambiamento – attitudine questa, sia bene inteso, non certamente relegata all’ambito del management d’impresa, come certe vicende politiche ci ricordano…


Siamo allora così certi che le potenzialità dei nuovi mezzi e dei nuovi strumenti di comunicazione siano sufficienti per annunciare il passaggio dal paradigma del “mass marketing” a quello del “tailored marketing”, in cui la comunicazione si mette al servizio degli utenti e non più (solo) dell’azienda, in cui la pubblicità cessa di essere invasiva e si basa invece sul “permesso” (come preconizzato da Seth Godin negli anni ‘90)?
O siamo solo di fronte ad una ennesima discontinuità di mercato, destinata a risolversi nel solito gattopardismo? Se il mondo della comunicazione in Italia non si desta dal torpore dell’abitudine e da una certa inclinazione al trasformismo, il divario tra il Belpaese e il resto del mondo rischia di allargarsi irrimediabilmente..
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