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Innovazione e creatività individuale: sintesi o antitesi?

25/09/2014

Le imprese hanno bisogno di persone creative perché senza creatività non può esserci nessuna innovazione. Conditio sine qua non, però, è che siano le aziende a creare una cultura in cui la creatività possa trovare spazio e svilupparsi. La riflessione di _Giampietro Vecchiato._

di Giampietro Vecchiato
“Non farti venire delle idee!” Con questa battuta (tratta dal musical di Brodway, How to Succede in Business Without Really Trying, 1962) l’anziano impiegato addetto alle spedizioni spiega all’ambizioso e determinato nuovo arrivato Pierpont Finch, “come fare carriera in azienda”.
E non ne aveva avuta nemmeno una per anni assicurava con orgoglio. Aveva giocato sul sicuro: “Come voleva l’azienda”.Quale era il suo punto di vista? “Non avere punti di vista”.In questo modo, ammette il nostro impiegato, non salirà mai ai vertici dell’azienda. Ma nemmeno correrà dei rischi e vivrà tranquillo, anno dopo anno.
Le cose sono cambiate dal 1962 ad oggi? Le cose sono profondamente cambiate. Oggi le organizzazioni che vogliono sopravvivere e rispondere velocemente ai cambiamenti in atto nel mercato mondiale devono creare luoghi di lavoro nei quali le persone si assumono dei rischi, si fidano le une delle altre e possono tranquillamente proporre nuove idee. Le organizzazioni hanno bisogno di persone originali, con una mentalità indipendente, libere di rispondere in modo personale e fantasioso al cambiamento. In breve: hanno bisogno di persone creative.
L’uomo, la sua creatività e la sua realizzazione non sono mai stati al centro del sistema sociale ed economico. Nella produzione le parole chiave erano serialità e standardizzazione. Nel processo produttivo l’uomo non doveva “pensare” e si parlava di specializzazione (o di parcellizzazione del lavoro), di mansionario e l’attenzione era tutta sbilanciata sui processi esecutivi. Nel marketing era dominante l’orientamento al prodotto. Il risultato finale era caratterizzato da deresponsabilità individuale (a tutti i livelli), dall’assenza di relazioni autentiche, dalla vittoria di una “mentalità meccanica e funzionale” in tutti i settori della vita umana. Anche la comunicazione aveva interiorizzato questa visione e l’unica modalità esercitata era quella one-way, unidirezionale, asimmetrica (quella che Enrico Bertolino ha definito: “La comunicazione che non comunica”).
Il processo innovativo, tanto centrale nel pensiero economico delle attuali aziende, ha bisogno di un innesco: la creatività. Essa rappresenta l’ingrediente fondamentale per fare in modo che il processo di innovazione si metta in moto, pur non garantendone il successo finale ex ante. La creatività deve quindi essere costantemente stimolata e alimentata, visto che senza di essa non può esserci alcuna innovazione.
Troppo spesso, invece, le organizzazioni impongono alle persone comportamenti che non solo non facilitano la creatività, ma che a volte la inibiscono totalmente. Il presupposto fondamentale affinché le persone siano creative e quindi innovatrici, è che l’organizzazione possegga una cultura che favorisca, supporti e alimenti costantemente l’innovazione. Deve esserci una tensione emotiva che spinga verso la rottura dei modelli mentali tradizionali. Le persone devono aver profondamente interiorizzato valori che siano coerenti con un’attitudine positiva verso il cambio di paradigma e l’innovazione stessa.
Non basta, in altre parole, avere un alto livello di creatività (sia personale che di gruppo) e possedere le necessarie tecniche e processi (project management, problem solving, brainstorming, pensiero laterale, ecc) per compiere atti creativi e ottimizzare gli sforzi creativi se il tutto non avviene in un contesto adeguato, se manca l’humus culturale che offre alle persone la possibilità di “rischiare” e di essere veramente innovative.
Cambiano le aziende ma cambia necessariamente anche il singolo e il suo atteggiamento e passa dall’obbedienza alla responsabilità, tuttavia il vecchio modello continua ancora a prevalere.
La ragione va ricercata, secondo M. Minghetti e F. Cutrano (2004) nel fatto che le aziende sono in gran parte fondate su modelli organizzativi e gestionali poco adeguati a valorizzare gli individui di talento, le personalità originali e creative, bensì a trattare le persone alla stregua di robot, di ripetitori meccanici di compiti e mansioni. Va però precisato che grazie al lavoro, alla ricerca, all’appassionata testimonianza di molti operatori del settore le organizzazioni si stanno trasformando in una palestra per la realizzazione personale e occasione di esperienza comunitaria (P. Trupia, 2002), dove l’ascolto e la comunicazione sono pratiche permanenti. Le nuove organizzazioni non si basano (o non dovrebbero basarsi) sull’obbligo, sul comando, sul sistema premiante-punente, ma sulla libera partecipazione, sulla volontaria assunzione di responsabilità, con l’obiettivo di far emergere la creatività individuale, lo spirito di collaborazione, l’iniziativa personale (da “dipendenti” a “imprenditori di se stessi”).
Per questi motivi in azienda vanno combattuti sia i “killer creativi”, dove per killer intendiamo persone, azioni, comportamenti, linguaggi, cultura, ecc che uccidono ogni nuova idea, ogni nuova proposta, sia la mentalità dell’obbedienza e del soldatino.
Concludo con un aneddoto su Brunello Cucinelli, fondatore e presidente dell’omonima azienda umbra che invita i suoi dipendenti a essere “geniali, creativi e unici” perché, afferma, “si può fare impresa essendo corretti, leali, sereni e coraggiosi. Molti imprenditori credono che su 100 dipendenti ci siano 3 geni e 97 stolti; loro, ovviamente, sono i geni. Io non credo. Credo che su 100 persone ci siano 100 genialità differenti, tutte utili all’azienda e io sono l’organizzatore di queste genialità”.
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