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Kony 2012: un esempio di comunicazione efficace?

21/03/2012

Il documentario realizzato dalla Ong _Invisible Children_ su Joseph Kony, sanguinario generale ugandese, ha letteralmente invaso Internet e i social network, conquistando il primato di link più cliccato di tutti i tempi, non senza sollevare un polverone di critiche. Ma si tratta davvero di una comunicazione no-profit di successo?

La campagna virale di Invisible Children, organizzazione no-profit di San Diego, California, è esplosa in rete il 5 marzo scorso quando è stato pubblicato il video Kony 2012 capace di totalizzare nel giro di quattro giorni 47 milioni di visualizzazioni.
Il documentario, diretto e narrato dal fondatore di Invisible Children, Jason Russel, accende i riflettori su una vicenda tanto dolorosa quanto, fino ad oggi, sconosciuta, i crimini di guerra commessi da Joseph Kony, capo della LRA (Lord’s Resistance Army), su cui pende tuttora l’accusa di crimini contro l’umanità da parte della Corte Penale Internazionale, responsabile di aver ridotto in schiavitù più di 30.000 bambini, trasformandoli in soldati e in schiave sessuali.
Anche il popolo di Facebook e Twitter ha sostenuto la causa dei bambini ugandesi e chiesto a gran voce l’arresto del leader dei ribelli, facendo salire l’argomento ai primi posti della classifica dei topic trends. Come era già accaduto nel caso della Primavera Araba, anche questa volta i social media hanno dato voce a chi non ce l’ha. E questo è un dato sul quale non si discute.
Ma, come in ogni caso di sovraesposizione mediatica che si rispetti, insieme a coloro che hanno lodato l’iniziativa non sono mancati quelli che l’hanno criticata con veemenza urlando al complotto politico ed evidenziando (proponendo prove oggettive e veri e propri dossier spreco di fondi.

Il New York Times è nel novero dei sostenitori dell’iniziativa, l’editorialista Nicholas Kristof, difende strenuamente la campagna di Invisible Children: “Complimenti al regista che ha spinto i giovani americani ad alzare lo sguardo dai loro iPhone e a cercare di fare la differenza per gli abitanti dell’Africa centrale che continuano ad essere uccisi , stuprati e mutilati da Kony e dal suo Esercito di Resitenza del Signore” e risponde punto per punto alle critiche dei detrattori.
Ma quali sono i punti oscuri della vicenda?

In molti si sono chiesti se la questione Kony debba essere affrontata a livello internazionale. L’intellettuale ugandese Mahmood Mamdani non ha dubbi: “E’ un problema ugandese, che deve essere risolto dagli ugandesi”. Ma non mancano pareri contrastanti, come quello della congolese Francisca Thelin, alla quale ha dato voce l’amica e giornalista del New York Times Lisa Shannon in un articolo denso di testimonianze. Alla domanda: “cosa ne pensi del video?” Francisca ha risposto: “Questo ragazzo è un genio. E’ solo una questione di volontà. Se gli Stati Uniti vorranno fare qualcosa lo faranno e spero che questa volta lo facciano seriamente”. (gli U.S.A. avevano inviato lo scorso ottobre cento soldati a sostegno delle forze armate regionali, senza però sortire alcun effetto.)
Alcuni hanno definito la campagna di Invisible Children un esempio di reminescenza del portato imperialista. E c’è addirittura chi ha visto dietro l’appello la volontà di manipolare l’opinione pubblica al fine di spingere Barack Obama ad optare per l’intervento militare.


L’analisi del problema ugandese per altri è stata condotta con superficialità, Russel non ha mostrato tutti i dettagli della vicenda, limitandosi a produrre un video patinato, ottimo per Hollywood, ma totalmente sconnesso dalla realtà. Ma Nicholas Kristof, dalle pagine del New York Times tuona “E’ vero, il video glissa su alcuni dettagli ma ha reso il pubblico americano più informato” ed aggiunge che a volte i dettagli e le sfumature ci paralizzano anziché aiutarci a risolvere un problema.
Certo è che gli ugandesi, dopo aver assistito alla proiezione del documentario avvenuta il 13 marzo scorso in un cinema all’aperto costruito per l’occasione, non hanno gradito il video. “La reazione? – spiega David Smith, giornalista del The Guardian e testimone della proiezione- perplessità, rabbia, che è salita fino a portare a tafferugli e lanci di pietre che hanno portato gli organizzatori a fuggire per mettersi in salvo. In particolar modo le critiche erano indirizzate all’uso del merchandising, come T-shirt e braccialetti promossi dalla campagna Stop Kony”. Il Cronista inoltre riporta le voci degli abitanti “tutto ciò non centra nulla con noi, non riflette la nostra realtà”, “perché non hanno usato le vere vittime nel film?” e ancora “come possono pensare che un ugandese possa indossare una maglietta con il nome di Kony?”


Questa domanda conduce ad un’altra critica mossa dagli oppositori della campagna, quella relativa all’utilità del video, che a sua volta si lega indissolubilmente all’accusa di mancata trasparenza nell’utilizzo dei fondi da parte dell’associazione. La domanda sorge spontanea: ma una volta visto il video o comprato il braccialetto, cosa succede? Invisible Children ha più fondi e il mondo è più informato. Ma qualcuno punta il dito su come l’organizzazione spende questi soldi: in video o in aiuti concreti per i bambini africani? E’ questo il nocciolo della questione.
Queste le valutazioni e i dubbi che emergono dall’analisi dei media, alle quali Invisible Children, che ha aperto una sezione sul sito dedicata alle critiche, dovrà rispondere nei prossimi giorni.

E gli esperti di comunicazione come valutano la campagna virale Stop Kony? È un buon esempio di comunicazione?
Innanzi tutto gli esperti di tutto il mondo che hanno affrontato questo tema si sono interrogati sul motivo per cui milioni di persone sono rimaste incollate davanti agli schermi per ben trenta minuti, per di più guardando un documentario dedicato ad un argomento tragico, quando è noto che l’attenzione media della gente di fronte ad un video on-line è al massimo di due minuti. Qual è il motivo del suo successo?
Marta Serafini del Corriere della Sera pone la domanda ad Andrea Febbraio e Dario Caiazzo di Ebuzzing Italia.
“Il successo di Stop Kony si spiega in pochi punti. Primo, il contenuto emozionale, come quello scelto (e cioè i bambini soldato) è fondamentale, ma la vera forza sta nella distribuzione” inoltre, aggiungono i blogger, “fortissima e ben definita è la call to action, la chiamata all’azione. Il meccanismo è: se condividi il video, cambi le cose.”
Gli editorialisti Zoe Fox e Lance Ulanoff di Mashable, autorevole blog americano di comunicazione, oltre ad esaltare il potere che la rete e i social media hanno dimostrato di avere nel favorire cambiamenti politici e nel modificare il sistema dell’ informazione, sono convinti che la comunicazione di Invisible Children sia riuscita a raggiungere il suo scopo. Rob Dyer, autore di video-online per la sua associazione di prevenzione Skate for Cancer, intervistato da Ulanoff, conferma il successo dell’iniziativa: “Qual era lo scopo? Lo scopo era rendere famoso Kony. Penso che abbiano raggiunto il loro obiettivo”.
Con l’articolo 5 crisis PR lessons from Kony 2012 il blog Ragan da nuova vita al dibattito concentrando l’attenzione sul modo in cui l’organizzazione no-profit Invisible Children è riuscita in pochi giorni a superare “l’uragano” mediatico di critiche che l’hanno investita.
Infine, non mancano le critiche anche da parte dei professionisti della comunicazione. E’ il caso del social media strategist della campagna Connect4Climate della World Bank, Teddy Ruge , convinto che la comunicazione della Ong sia totalmente sbagliata.
“Siamo di fronte ad una campagna di ricerca fondi molto serrata nella quale un’organizzazione propone se stessa come agente del cambiamento. Ripeto non c’è niente di male nel portare l’attenzione su un argomento. Io mi lamento per come questo è stato fatto. Anziché esortarci a lavorare insieme per aumentare la pressione sui nostri governi per assicurare la pace e sviluppare il dibattito, Invisible Children ha preso l’iniziativa di proporsi come ente esterno e di fare questo al posto nostro”.
Appurata la complessità della questione e la necessità di affrontare il problema anche dal punto di vista della comunicazione nell’ambito del settore del no-profit. Il dibattito è aperto.
Claudia Balbi

Sulla vicenda di Kony 2012, si è espresso anche Biagio Carrano sulle pagine del suo blog, L’Immateriale.
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