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La Cina obbliga gli influencer ad avere una laurea. Ma la vera domanda riguarda tutti noi

11/11/2025

Giuseppe de Lucia, Consigliere Nazionale FERPI

Una legge per combattere la disinformazione impone titoli di studio a chi parla di sanità, diritto e finanza. Dietro la misura cinese, il dilemma globale tra competenza e libertà di parola.

 

Dal 25 ottobre in Cina è entrata in vigore una nuova legge che cambia radicalmente il modo in cui gli influencer possono comunicare online.
La Cyberspace Administration of China (CAC) ha stabilito che chiunque produca contenuti su temi “sensibili” - come sanità, diritto, pedagogia o finanza - dovrà dimostrare di possedere qualifiche formali: una laurea, una certificazione professionale o credenziali riconosciute nel settore.

 

L’obiettivo dichiarato è chiaro: combattere la disinformazione online e tutelare il pubblico da falsi esperti o contenuti potenzialmente dannosi. Le piattaforme come Douyin (TikTok cinese), Bilibili e Weibo saranno responsabili della verifica delle credenziali e dovranno garantire che i creator indichino le fonti, i riferimenti accademici e persino quando un contenuto è generato dall’intelligenza artificiale.

Una misura che, almeno nelle intenzioni, mira a ripulire il web dalla marea di contenuti superficiali e spesso ingannevoli che proliferano soprattutto in settori delicati come la salute o gli investimenti.
Eppure, la legge sta suscitando un acceso dibattito internazionale: tra chi la considera un passo avanti nella lotta alle fake news e chi la interpreta come un nuovo strumento di censura e controllo.


Curiosamente, la notizia ha avuto poca risonanza in Italia. Mentre testate come BBC, The Guardian o The New York Times hanno aperto un ampio dibattito sull’equilibrio tra responsabilità e libertà, la stampa italiana si è limitata a qualche trafiletto o rielaborazione di agenzia.
Eppure, il tema tocca questioni centrali anche per noi: la qualità dell’informazione digitale, la credibilità dei content creator, il confine tra libertà di opinione e competenza professionale.


Sul piano teorico, l’idea non è priva di senso. In un ecosistema digitale dominato da voci che spesso si improvvisano esperte, chiedere un minimo di competenza verificata può aiutare a ridurre (se non eliminare) la disinformazione. Basti considerare quanto accaduto durante la pandemia. È difficile negare che contenuti errati su vaccini, cure “miracolose” o finanza personale possano avere conseguenze concrete.
In questo senso, la legge cinese intercetta un problema reale, che riguarda tutti i paesi.

Ma è proprio il contesto politico e mediatico cinese a rendere l’iniziativa più inquietante che rassicurante.
Quando la selezione di chi può parlare passa attraverso la verifica statale o l’autorizzazione delle piattaforme sotto controllo governativo, il rischio è che la “competenza” diventi un pretesto per filtrare le opinioni.
Chi decide cosa è “qualificato”? E chi garantisce che l’esperienza pratica, o la voce indipendente, non venga silenziata perché priva di titoli formali?


L’altro grande rischio è l’effetto “chilling”: la paura di esporsi.
Molti creator, per evitare sanzioni o censure, potrebbero rinunciare a trattare temi complessi, lasciando spazio solo a chi è “autorizzato” o istituzionalmente riconosciuto.
Eppure, spesso l’innovazione - anche informativa - nasce proprio da voci laterali, non accademiche, capaci di tradurre conoscenze tecniche in linguaggio accessibile.
Imporre barriere di accesso troppo rigide significa rischiare di appiattire il dibattito pubblico.


In fondo, la legge cinese non riguarda solo la Cina. Riguarda tutti noi, e la domanda di fondo che ci accompagna da anni: come conciliare libertà di parola e qualità dell’informazione nell’era digitale? Serve davvero un titolo per parlare di salute o finanza, o serve piuttosto un sistema di responsabilità e trasparenza, in cui il pubblico possa distinguere competenza da improvvisazione?

Per ora, la risposta cinese sembra propendere per la via più autoritaria.
E se i vantaggi teorici sono evidenti - meno fake news, più responsabilità - i rischi di controllo, censura e discriminazione appaiono, oggi, molto più concreti.

 

La “legge sugli influencer” cinese ci costringe a guardare con più attenzione il rapporto tra conoscenza e libertà.
Una sfida che non si risolve con una laurea, ma con una cultura digitale più matura, capace di promuovere informazione di qualità senza soffocare il pluralismo delle voci.

 

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