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La CSR ha fallito

10/05/2013

L’epoca della CSR è finita. È la provocatoria affermazione che emerge da un recente report di _McKinsey,_ secondo cui è tempo di guardare a un _Integrated External Engagement,_ in grado di portare l’engagement direttamente all’interno del processo decisionale a ogni livello dell’impresa.

di Rosaria Barrile
Finita l’epoca della Csr. È tempo di passare all’ external engagement integrato. A formulare tale impietoso giudizio sono gli esperti di McKinsey, in un report secondo cui l’approccio tradizionale alla Csr avrebbe fallito la sua mission. La società di consulenza ritiene che occorra guardare a un Integrated external engagement (Iee) in grado di portare l’engagement direttamente all’interno del processo decisionale a ogni livello dell’impresa.
Si parte da una definizione di external engagement come l’insieme degli sforzi compiuti da un’azienda per gestire la sua relazione con il mondo esterno. Questa relazione può includere diverse attività: la filantropia, l’azione di lobby politica, la partecipazione a programmi della comunità locale, ma anche la politica di selezione del personale. «Attualmente – si legge nel report – la maggior parte delle imprese hanno declinato l’external engagement in tre modi: creando uno staff centrale dedicato alla Csr, lanciando iniziative di altro profilo ma relativamente poco dispendiose, e pubblicando la revisione annuale dei progressi».
L’approccio tradizionale ha avuto alcuni effetti positivi. Le imprese sono più propense a valutare attentamente l’ambiente esterno rispetto al passato, e il loro programmi di filantropia hanno fornito aiuto a molte persone. Ma, nel concreto, nella maggior parte dei casi la Csr così intesa è venuta meno al suo scopo principale che consiste nel costruire relazioni più forti con il mondo esterno. Gli stessi manager interpellati da McKinsey hanno riconosciuto che il loro approccio è stato di fatto inadeguato. In un’indagine recente condotta a livello mondiale dal colosso della consulenza su più di 3.500 manager, meno del 20% degli interpellati ha dichiarato di aver ottenuto successo nel cercare di influenzare la politica del Governo oppure l’esito di decisioni legislative.
Dove, dunque, stanno sbagliando le imprese e che cosa non funziona nell’approccio tradizionale alla Csr?
Occorre partire da una constatazione. I cittadini e i governi tendono ad avere aspettative più elevate nei confronti delle aziende rispetto al passato: non basta più ottemperare alle legge e adeguarsi agli standard previsti, ma occorre assicurarsi, per esempio, che tali parametri vengano rispettati anche lungo la supply chain. Ci si aspetta inoltre che le imprese più grandi siano in grado di spingersi ancora oltre contribuendo alla soluzioni di questioni economiche, sociali e ambientali per quanto non strettamente correlate al loro business. Nel contempo, le aspettative dei cittadini sono cresciute di pari passo con la loro capacità di mettere sotto esame le aziende. La comunicazioni sui media digitali permettono agli individui singoli e alle associazioni (tra cui anche le organizzazioni non governative) di tenere sotto osservazione l’operato delle imprese ed eventualmente sollevare contro tali azioni campagne in tempi rapidissimi, anche a livello mondiale, e a costo molto contenuto se non quasi zero. Per questo le aziende devono essere attrezzate per far fronte sia al crescere delle aspettative sia alla capacità di osservazione e di critica pubblica.
La gestione delle Csr “classica” non avrebbe portato alcun beneficio su questo fronte. Secondo gli esperti di Mckinsey l’approccio centralizzato al tema presenta infatti quattro difetti principali.
1) In primo luogo, le iniziative promosse dall’alto raramente ottengono il pieno supporto del business e tendono a sfociare in discussioni su chi paga e chi ottiene il beneficio. Senza una partecipazione attiva delle funzioni a più elevato assorbimento di capitale – tipicamente la produzione e il marketing – le ambizioni del team centrale deputato alla Csr sono difficili da realizzare.
2) Gli uffici preposti alla Csr, inoltre, possono facilmente perdere il contatto con la realtà dal momento che hanno visione spesso ristretta e distante degli stakeholder dell’azienda. I manager attivi direttamente sul campo invece hanno una migliore comprensione del contesto locale sia in termini di stakeholder sia in termini di bisogni della popolazione.
3) Spesso, poi, la Csr è stata utilizzata come un mezzo per proteggere la propria reputazione. L’external engagement invece dovrebbe rappresentare molto di più e tradursi nella capacità di attirare nuovi consumatori, di motivare i lavoratori e promuovere proposte nei confronti dei governi.
4) Ultimo punto debole dell’approccio tradizionale alla Csr è la durata media dei programmi, solitamente troppo brevi. Questo avviene perché solitamente la loro messa in atto è radicalmente separata dall’attività commerciale dell’azienda. La loro sopravvivenza deriva unicamente dalla discrezionalità e dalle inclinazioni del momento del management piuttosto che dal loro valore in quanto tale. Pertanto la loro sopravvivenza è estremamente vulnerabile al cambio del management e ad eventuali tagli di costi.
Assunti condivisi
McKinsey ricorda che già Michael E. Porter e Mark R. Kramer, tra i precursori negli studi sulla creazione di “valore condiviso”, hanno individuato le cause di un possibile fallimento in «un miscuglio di Csr poco coordinata e di attività filantropiche disconnesse dalla strategia dell’azienda tale da non generare alcun impatto sociale significativo o rafforzare la competitività dell’azienda nel lungo periodo».
Come risposta a tale questione, alcuni studiosi hanno proposto una nuova cornice per comprendere come il business possa gestire la relazione con il mondo esterno. Quasi tutte le impostazioni concettuali, incluse quella di Porter e Kramer sul “valore condiviso” e quella di Ian Davis sul “contratto sociale” partono dallo stesso assunto: le imprese devono profondamente integrare l’external engament nella loro strategia e nelle loro procedure.
«Perché, appunto, il successo di un’azienda – si legge nel report di McKinsey – dipende strettamente dalla relazione con il mondo esterno (che comprende non solo i clienti attuali e potenziali, lo staff interno, ma anche il legislatore e gli attivisti). Le decisioni prese a tutti i livelli dell’azienda, dal centro (a livello di cda) alla periferia (a livello di singolo punto vendita) vanno a impattare su tutte queste relazioni. Per essere veramente efficace il processo decisionale deve quindi tenere in debito conto di questi effetti. L’external engagement non può essere separato dall’attività quotidiane di business, ma deve esserne parte integrante».
Secondo gli analisti di McKinsey molti manager sono già pronti a condividere questo obiettivo, ma non sanno come conseguirlo in pratica.
Suggeriscono quindi di adottare principi cruciali.
a) Definire l’azienda attraverso il contributo che essa è in grado di dare alla società: questo non significa dover cambiare lo scopo dell’azienda bensì rendere più esplicito il come la realizzazione di tale scopo può a sua volta fornire benefici alla società.
b) Conoscere i propri stakeholder: l’azione, per quanto ovvia possa sembrare, richiede qualcosa di più rispetto a quanto comunemente fatto oggi. Significa conoscere i propri stakeholder nello stesso modo in cui si tende a conoscere i propri clienti.
c) Le aziende che hanno successo nell’integrare l’external engagement nel loro business lo vedono come un fattore per incrementare la profittabilità e per questo si impegnano nel creare capacità, definire i processi e misurare dei risultati. Anche sul fronte dell’external engagement, infatti, i risultati, alla pari di quelli di business, devono essere misurati e misurabili: occorre pertanto fissare obiettivi, valutare i progressi e collegare gli incentivi con i risultati ottenuti.
Fonte: EticaNews
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