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La lingua italiana, strumento di lavoro

05/05/2019

Letizia Pini

Continua l'appuntamento sulla scia di Parole in Cammino per un contributo fattivo e alternativo alla nostra cassetta degli attrezzi. Questa settimana Letizia Pini dialoga di lingua con Simonetta Losi, docente di italiano per stranieri all’Università per Stranieri di Siena che da anni si occupa di Linguistica e didattica dell’italiano, oltre che di vernacolo senese.

Comunicare si sa, è ogni azione, o non-azione che gli addetti ai lavori - e ahimè anche gli improvvisati  factotum di oggi – mettono in campo in ogni settore.

Ma tornando alla principale ‘fonte’ di ‘comunicazione’, il linguaggio, quest’anno Parole in Cammino si è molto soffermato sulla forza e la potenza che le parole della nostra lingua hanno.

Il gergo della nostra professione, ma non solo, fa uso ed abuso dei termini presi in prestito da altre lingue, all’inizio per incisività, poi per moda, poi per un uso e ormai una consuetudine per la quale il nostro modo di ‘parlare’ ed esprimersi per creare interesse, coinvolgimento e attenzione risulta infarcito di parole strane che non ci rendono più edotti, ma solo più ’alla moda’ e in quanto tali ci crediamo più credibili. Ma è davvero così?

Oppure la nostra lingua, senza entrare in tecnicismi, la lingua dei nostri territori, non è già di per sé infarcita di quella pregnanza e di quella immediatezza che rispetta il nostro essere e quello che vogliamo comunicare? Siamo sicuri che le nostre parole, le parole del nostro ‘volgo’ non abbiano quella immediatezza che invece trasformiamo ammantandola di altri abbellimenti che non fanno altro che traslare un concetto, portarlo lontano e per indurci a tornare al concetto principe solo dopo panegirici inutili? Beh, sentiamo cosa la Prof. Simonetta Losi, docente di Italiano per Stranieri all’Università di Stranieri e di Siena ed esperta di Linguistica, ha da raccontarci con il suo studio sulle ‘parole e il lavoro’, partendo dal vernacolo…




di Simonetta Losi 

Un popolo

“Un popolo
Mettetegli la catena
Spogliatelo
Chiudetegli la bocca
È ancora libero.

Levategli il lavoro
Il passaporto
Il tavolo dove mangia
Il letto dove dorme
È ancora ricco.

Un popolo
Diventa povero e servo
Quando gli rubano la lingua
Datagli dal padre
È perso per sempre
Diventa povero e servo
Quando le parole non creano parole
E si mangiano tra loro"

 

 

 

(…)[1]

Così scriveva Ignazio Buttitta, scrittore siciliano, parlando di un dialetto che stava perdendo vitalità sotto la spinta della modernità, della volontà di affrancarsi da termini ed espressioniche richiamavano un passato di miseria, emigrazione, analfabetismo e arretratezza sociale.

In questo articolo focalizzeremo alcune questioni che riguardano il rapporto tra lingua e dialetti all’interno del mezzo televisivo e audiovisivo, oltre all’importanza, nell’attuale mondo del lavoro, di utilizzare consapevolmente la lingua, anche facendo ricorso al vernacolo e al dialetto per rendere la comunicazione più efficace, attraverso la sollecitazione di emozioni e suggestioni.

Fin dalla nascita, nel 1954, la televisione italiana aveva intrapreso, sul modello della BBC (informare, divertire, educare), un processo di unificazione linguistica e promozione culturale proponendosi come modello autorevole di lingua e utilizzando il proprio dirompente potere attrattivo. Il “cinema in casa”era il polo di attrazione di intere famiglie e di piccole comunità, che si raccoglievano davanti al nuovo focolare ad ascoltare le storie animate.

La tv forniva nozioni di tutti i tipi con i telequiz, faceva cantare gli italiani, li informava degli accadimenti nazionali e internazionali, metteva in scena la grande letteratura italiana ed europea – si ricordi la trasmissione in più puntate dei “I promessi sposi”, fedele trasposizione televisiva sia dal punto di vista linguistico che dei contenuti. Qualche volta, la tv insegnava a leggere e scrivere, come nel programma “Non è mai troppo tardi” condotto dal maestro Manzi.

Da un lato la tv era uno dei fattori che per un certo periodo hanno messo in secondo piano i dialetti, per poi divenire, secondo le parole del linguista Raffaele Simone, da modello a specchio delle lingue d’Italia; dall’altro l’interesse etnoantropologico degli autori – provenienti dalla radio e in molti casi noti scrittori e intellettuali – li portava a mostrare parti dell’Italia poco note, feste e tradizioni antiche come il Palio, trasmesso per la prima volta il 2 luglio 1954. Andava in onda il modo di vivere degli italiani, il loro contesto sociale e il loro lavoro.

Fare e disfare, è tutto un lavorare – senesi di mestiere

La mia esperienza in glottodidattica e un dottorato in linguistica e didattica dell’italiano a stranieri incentrato sul ruolo della televisione sulla lingua italiana da un lato e nell’insegnamento dell’italiano come lingua seconda dall’altro, mi hanno convinto dell’efficacia delle immagini in movimento applicate ad un utilizzo consapevole e attento della lingua italiana. Da questi studi teorici e dalla pratica didattica, uniti allo studio del vernacolo, hanno avuto origine degli interventi sulla lingua senese che per oltre due anni hanno costituito una rubrica settimanale andata in onda sull’emittente Siena Tv.

È dedicato al vernacolo che riguarda il lavoro il corto presentato all’interno del Festival della Lingua Italiana “Parole in cammino” dal titolo “Fare e disfare, è tutto un lavorare – senesi di mestiere”. La ricerca che sta alla base del filmato è la monografia “La lingua ‘senese’ di Federigo Tozzi”. All’interno di questo studio vediamo che molte parole, proverbi ed espressioni del nostro vernacolo – che in molti casi sono ancora oggi vive - si ritrovano anche nel “Dittionario Toscano” di Adriano Politi, edito nel 1614.

Dobbiamo considerare che il lavoro è un campo dove si registrano molte variazioni linguistiche: alcune parole sopravvivono o muoiono in base alla scomparsa di alcuni mestieri. Non esiste più, per esempio, la figura dell’assalariato, l’operaio agricolo descritto da Tozzi nei romanzi “Il Podere” e “Con gli occhi chiusi”, o del barrocciaio, uomo che guida un carro a quattro ruote per il trasporto di materiale vario.

Del tutto scomparsi sono, ad esempio, i ligrittieri, i venditori di panni a ritaglio: tuttavia molti di questi mestieri – dal significato più o meno immediatamente comprensibile - si ritrovano nei bandierini che rappresentano le Arti e Mestieri legati alle Contrade di Siena, oltre che nei loro libri dei verbali e nei registri di Gabella del Comune.

Con la scomparsa dei mestieri e di alcune attività spariscono anche i saperi che a quelle attività sono indissolubilmente legati. È il caso, ad esempio, del ranno, una miscela di acqua e cenere che serviva per “fare la bucata”, ossia lavare e sbiancare i panni. Non esiste più un locale come la gargotta, bettola, osteria, taverna. Dal francese “gargoter”, mangiare avidamente, con ingordigia, rumorosamente. In disuso sono oggetti come il bigonzo, un recipiente di legno che si metteva sulle spalle, del quale si ha una fugace immagine nel video che vedremo fra poco.

Il video, che costituirà un format per tutti i dialetti in vista dell’edizione del Festival della Lingua Italiana “Parole in cammino”, raccoglie alcuni toponimi senesi riferibili ai mestieri e alle attività lavorative, alcuni termini desueti, alcune metafore, modi di dire, spesso legati – più o meno direttamente – alla campagna e agli animali.

Il parlato in video è volutamente senese, per trasmettere l’autenticità del vernacolo e di molte sue forme descritte, che sono ancor oggi in uso e rappresentano il patrimonio prezioso di una comunità, uno dei fattori identitari di Siena e della Sua gente.



La suggestione del parlar comune

Uno dei principi della linguistica è che la lingua sia il precipitato della cultura. Le parole che descrivono i mestieri antichi sono sapide e ricche di significato. Tutto ciò che esprime solida tradizione, ricorso a saperi antichi, evocazione di ricordi d’infanzia può essere opportunamente espresso facendo leva su quel patrimonio linguistico comune che è l’italiano, con inserimenti di parole dialettali che stabiliscono legami immediati con conoscenze di oggetti e modalità di fabbricazione che vengono da lontano.

Questo, da un punto di vista comunicativo, può essere valido sia per la descrizione dei propri prodotti e dei propri servizi, sia in ambito più prettamente pubblicitario. Sicuro è il legame della lingua con il territorio, che si declina in molti modi diversi.

Se i toponimi indicano antiche funzioni di una via o richiamano la presenza di artigiani e bottegai (piazzetta dei Legnaioli, vicolo dei Pollaioli, via Calzoleria) le moderne insegne utilizzano il vernacolo per creare impatto emotivo e un’originalità tesa a farsi ricordare: è il caso di Prètto, che richiama la schiettezza del vino come la intendevano i nostri nonni e bisnonni, ma anche di locali come Te kevòi, che mischiano la scrittura degli sms (che nella grafia della consonante “c” dura è stata scrittura dei primi documenti in volgare) e pronuncia tutta senese.

Tuttavia il richiamo linguistico al territorio abbraccia un’area comunicativa più vasta, fatta di termini specifici di uso tipico o addirittura esclusivo di un luogo. Per quanto riguarda Siena, ritroviamo queste caratteristiche soprattutto nella lingua del Palio: ne è un esempio il termine barbero, che indica il cavallo da corsa, parola che si utilizza solo in Piazza del Campo e dintorni, con il suo derivato barbaresco, riferito all’uomo che se ne prende cura nei giorni del Palio.

Un altro esempio è la parola Gazzilloro. Il Gazzilloro è il nome popolare di un coleottero, la Cetonia aurata e indica una persona che si veste in maniera vistosa, con colori sgargianti e male accostati fra loro; una persona grezza nei modi di fare e anche gretta nell’animo. Se questi termini sono utilizzati e comprensibili quasi soltanto all’interno della cinta muraria di Siena, parlare – per esempio - di Gallo nero richiama immediatamente il vino e un paesaggio collinare pettinato da vigneti ordinati.

Lo stesso accade con alcuni stralci di lingua tratti da testi letterari, o alcuni nomi di piatti tipici, che riportano alla dimensione e al contesto che li hanno prodotti.

Manager della lingua

Un recentissimo articolo su “Il Sole24Ore” [2] evidenzia come, accanto alle discipline che sono raccolte nell’acronimo STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), al pensiero computazionale che consente di scindere i problemi in singole parti, più facilmente gestibili e risolvibili, alla perfetta conoscenza dell’inglese e alle soft skills, a un manager è richiesta una completa padronanza della lingua italiana.

Indubbiamente in ogni ambito professionale e sociale il saper parlare e scrivere correttamente e in maniera forbita è un importante indicatore di status, in grado di definire il profilo della persona. Non solo: la capacità e la disinvoltura nel muoversi tra i vari registri linguistici – dall’italiano dell’uso medio a quello dell’uso aulico, dal formale all’informale, con incursioni nei gerghi e nelle espressioni diventate l’etichetta di un certo personaggio o di un certo evento (chi non ricorda il “mi consenta” di berlusconiana memoria?).

Comunicare in maniera efficace, dando immagini, formando con le parole un “visibile parlare” e facendo leva su tutti e cinque i sensi,è anche l’abilità di distinguere i vari generi testuali (lettera formale, contratto, messaggio pubblicitario eccetera) e muoversi con consapevolezza all’interno della relazione comunicativa con l’interlocutore, del contesto e dell’obiettivo della comunicazione. Saper giocare con la lingua in maniera creativa significa anche saperla rielaborare criticamente, trovare o produrre nuovi significati, oltre che connettersi emotivamente ed essere empatici con i propri interlocutori. Inoltre viene potenziata la capacità di affabulare, raccontare, emozionare e persuadere.

In questo contesto dialetto e vernacolo possono agevolmente scavalcare lo straniamento dato dall’uso eccessivo di forestierismi per andare a toccare – in maniera più o meno conscia - corde emotive e culturali che creano attenzione, ascolto attivo, movimento all’interno della relazione, senso di autenticità e appartenenza.

Emerge quindi l’opportunità, da parte di manager e imprenditori, di sviluppareuna sempre più profonda consapevolezza delle infinite sfumature della lingua, del vernacolo, del dialetto, del potere evocativo delle parole, della loro capacità di suscitare analogie e suggestioni. Sarà bellissimo essere al fianco e dentro l’italiano, lingua in cammino, per camminare con lei. È uno dei modi per percorrere e in alcuni casi precorrere il nostro tempo, vivendolo intensamente: se è vero che verba volant, una parte del nostro essere dispiega le ali con loro, per lasciare un’impronta nel segno della scrittura e nel mondo delle idee.




[1]Un populu

Un populu/mittitilu a catina/spughiatilu/attuppatici a vucca/è ancora libiru.
Livatici u travagghiu/upassaportu/a tavula unni mancia/u lettu unni dormi,/è ancora riccu.
Un populu/diventa poviru e servu/quannu ci arrubbanu a lingua/addutata di patri:/è persupisempri.
Diventa poviru e servu/quannu i paroli non figghianuparoli/e si mancianu tra d’iddi.(…)”

[2] “Manager: oggi una competenza chiave è la lingua… italiana” di Lorenzo Cavalieri, Il Sole24Ore, 18 aprile 2019

 

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