Sergio Vazzoler
Tra narrazioni emergenziali e richiami confusi alla semplificazione, la parola sostenibilità rischia di svuotarsi di significato.
Negli ultimi mesi, nel lessico pubblico si è verificato uno slittamento silenzioso ma significativo. Parole come “difesa”, “resilienza strategica” e “pragmatismo economico” hanno progressivamente soppiantato “sostenibilità”, termine simbolo degli ultimi anni, ormai scomparso da molte agende e dichiarazioni ufficiali. Non è un semplice cambio di vocabolario: è il riflesso di una mutazione profonda nella gerarchia delle priorità politiche ed economiche.
Dall’Agenda 2030 al Rearm 2030, il passo è stato brevissimo. La velocità con cui stiamo riscrivendo le narrative del futuro ha il sapore dell’emergenza permanente. E in questo contesto, la sostenibilità rischia di essere relegata a una voce fuori campo, mentre cresce il rischio che, dietro l’invocazione alla “semplificazione”, si nascondano arretramenti mascherati da pragmatismo. Le recenti proposte legislative europee, come il pacchetto Omnibus, i rinvii agli obblighi di rendicontazione e il dibattito sugli standard ESG, mostrano chiaramente questa ambivalenza. È giusto cercare maggiore chiarezza normativa e semplificare (le esagerazioni cavillose e burocratiche erano evidenti) ma se questo diventa una scusa per rinunciare a un progetto condiviso di trasformazione, beh, allora ci si assume davvero un enorme rischio.
La realtà ci bussa alla porta
Nel frattempo, infatti, le conseguenze della crisi climatica bussano alla porta con insistenza. In questa estate, i notiziari ci hanno raccontato di città alpine invase da colate di fango, di zero termico sopra i 5.000 metri, di blackout, evacuazioni, e persino della Tour Eiffel chiusa per il troppo caldo. Eppure, si continua a invocare “gradualità” come scudo per posticipare azioni urgenti. Ma quanto ci costa davvero questa prudenza? Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, entro il 2030 lo stress termico comporterà la perdita del 3,8% delle ore lavorate a livello globale, equivalenti a circa 136 milioni di posti di lavoro a tempo pieno.
In questo scenario, chi comunica ha una responsabilità amplificata. Per troppo tempo abbiamo rincorso le logiche della compliance e dello storytelling “confortevole”, dimenticando il senso profondo di ciò che dovremmo trasmettere: un patto tra impresa, società civile e istituzioni per affrontare le sfide comuni. La parola “sostenibilità” ha bisogno di essere protetta non solo dagli abusi semantici, ma anche da un cinismo che ne svuota il potenziale trasformativo. Non si tratta di combattere solo il greenwashing, ma di difendere il valore autentico generato da quelle tante aziende che negli anni hanno investito seriamente in percorsi di cambiamento.
Rimettere il cuore al centro
Per questo serve oggi una comunicazione capace di rigenerare visione e connessione. Una narrazione che non abbia paura di porsi domande scomode, ma che sappia anche proporre risposte credibili. La sostenibilità deve tornare a farci battere il cuore, smettendo le vesti di orizzonte da normare, ma incarnando di nuovo un’ispirazione da vivere. Perché finché continueremo a declinarla come obbligo, perderemo la sua potenza politica, culturale e – sì – anche emotiva.
Perché facciamo sostenibilità? Perché abbiamo iniziato a immaginare e agire questo nuovo modello economico? Chi si occupa di comunicazione, oggi, ha il compito di ritrovare il filo di questa motivazione originaria. E di riattivare un dialogo sincero tra le parole e le comunità. Perché solo così potremo ricostruire fiducia e orientare il cambiamento verso un futuro che non sia una minaccia, ma una promessa condivisa.