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La solitudine nell’epoca del web

07/11/2012

I social network danno sempre più la sensazione di essere parte di un gruppo, di far parte di un insieme da cui il concetto di solitudine sembra escluso. Ma è davvero così? O per dirla con _Zygmunt Bauman,_ viviamo in un’affollata solitudine? La riflessione di _Andrea Ferrazzi._

di Andrea Ferrazzi
Disse Anton Čechov che la vera felicità è impossibile senza la solitudine. Ma la solitudine è possibile nell’epoca di Internet e dei social media, degli smartphone e dei tablet, della connessione sempre e (quasi) ovunque che permette, con un semplice click, di entrare in contatto con schiere di altri individui? Sherry Turkle sostiene che gli esseri umani adorano le loro tecnologie a tal punto che di esse sono ormai prigionieri. «La robotica e la connettività – scrive – sono complementari: ci conducono inesorabilmente al ritiro relazionale. Con i robot sociali siamo soli, ma ci illudiamo di essere “insieme”. Grazie alle connessioni rese possibili dalla tecnologia, siamo “insieme”, ma questa forma di esistenza è così vuota, così limitata che siamo, de facto, soli. Le nostre tecnologie ci spingono a trattare il nostro prossimo come un mero oggetto, un oggetto a cui ‘accedere’ ma solo a quelle parti che troviamo utili, confortevoli o divertenti». Di più. Oggi siamo di fronte ad un curioso – e inquietante – paradosso: «Da un lato ripetiamo ad nauseam che viviamo in un mondo sempre più complesso, dall’altro abbiamo creato una cultura della comunicazione che rende difficile, se non impossibile, ritagliarsi spazi e tempi per riflettere in modo tranquillo, senza distrazioni. In un mondo che esige risposte in tempo reale abbiamo perso la capacità di affrontare problemi complicati».
Viviamo, insomma, in una condizione di «affollata solitudine», per dirla con le parole di Zygmunt Bauman. Di fronte alla quale c’è chi intraprende percorsi spirituali o avventure estreme pur di ritrovare la solitudine autentica. Come quella di Sylvain Tesson, il giornalista francese che ha trascorso sei mesi in una capanna siberiana, lontano da tutto e da tutti. «La solitudine – scrive – è una rivolta. Ritirarsi nella propria capanna significa uscire dal campo degli di controllo. L’eremita scompare. Non lascia più tracce digitali, non invia impulsi telefonici né ordini bancari. Si spoglia di qualunque identità. Pratica una sorta di hacking alla rovescia, esce dal grande gioco». Per provare questo ascetismo rivoluzionario, sostiene Tesson, non è nemmeno necessario fuggire in qualche landa dispersa del mondo: basta sottrarsi volontariamente alle «leggi» della società dei consumi, rifugiandosi nella foresta interiore.
E questo è quanto hanno fatto, in un certo senso, le “protagoniste” dell’ultimo libro del giornalista Giampiero Beltotto (Silenzio amico, pp. 272, Marsilio Editore). Sono le monache di Valserena, che in queste pagine sorprendenti dialogano e si raccontano con il popolo della rete. Il grande merito di questo lavoro è proprio quello di aver messo in contatto persone che abitano in mondi diversi. Da una parte, le monache che vivono in un monastero di clausura, che raccontano se stesse e la propria quotidianità fatta di «porzioni di tempo e di spazio in cui scoprire e sperimentare la compagnia di Dio». Dall’altra, il così detto popolo della rete, che prova un senso di gratificazione istantanea grazie al multitasking, che viaggia negli infiniti spazi virtuali, che costruisce il proprio sé sulla base delle risposte fornite, delle chiamate effettuate, degli e-mail spediti, dei contatti raggiunti». Dunque «un sé calibrato sulla base di quello che la tecnologia propone e impone, su quello che semplifica e al tempo stesso svaluta» (Sherry Turkle).
Da giornalista di esperienza qual è, Beltotto fa dire alle monache che, prima di entrare in clausura, erano ragazze come tutte le altre che, ad esempio, con la tecnologia avevano un rapporto analogo a quello dei coetanei. Poi tutto cambia, e questo è proprio il primo scoglio: lasciare personal computer e telefono portatile, scrivere a casa solo lettere a mano. Ma il punto vero non è tanto la fuga dalla tecnologia delle connessioni quanto piuttosto le motivazioni che stanno dietro a questa scelta e che, forse, dovrebbero suscitare qualche riflessione anche in chi non riesce ad addormentarsi senza aver controllato la posta elettronica e il proprio profilo sui social network. Sherry Turkle ammette: «Ho capito da tempo che prendere atto dei miei problemi professionali e delle aspettative degli altri all’inizio o alla fine della mia giornata non è il modo migliore di vivere, ma questa cattiva abitudine continua». Scollegarsi è difficile, così come è difficile ritrovare un po’ di solitudine e di silenzio. Chiede Beltotto: il frastuono sociale preclude la felicità? Risponde una monaca: «Il frastuono è segno di un disagio profondo, dell’incapacità di stare con sé, di habitare secum e dell’incapacità a porsi il problema in modo autentico».
«Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli – scrive Bauman – si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione. Certo, chi non ne ha mai gustato il sapore non saprà mai ciò che ha perso, ha lasciato indietro, a cosa ha rinunciato». Da questo punto di vista, dichiara una monaca a Beltotto, «siamo le meglio nutrite in mezzo a un’umanità che muore di fame». «Vorremmo condividere il nostro cibo, così buono e abbondante, con tanti e con tutti – aggiunge – ma sembrano più appetibili i miserabili surrogati. Certo, per gustare il nostro cibo bisogna sputare i bocconi acidi, rieducare il palato, imparare a gustare ciò che è buono. Liberarsi dalle dipendenze, disintossicarsi». Anche dal web.
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