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Paesi Arabi: niente è come sembra

26/10/2015

Toni Muzi Falconi

Il rapporto tra media arabi e media occidentali non è tra i più semplici e si tratta di un tema quanto mai attuale. “Radicalismi, censura e dialogo nei media e nelle società musulmane” è il titolo dell’incontro, organizzato da Reset-Dialogues on Civilizations, nell'ambito del progetto Arab Media Report, con il contributo del Ministero degli Affari Esteri, in programma martedì 27 ottobre a Roma. Toni Muzi Falconi ha intervistato Giancarlo Bosetti per comprendere più a fondo il senso dell'iniziativa.

Martedì 27 ottobre si tiene, come già riportato da questo sito, “Radicalismi, censura e dialogo nei media e nelle società musulmane”, un incontro fondamentale sul sistema dei media nel mondo arabo promosso dal Ministero Esteri  e da Reset-Dialogues on  Civilizations. Per capire meglio il senso di questa iniziativa così  rara e  così rilevante per chiunque si interessi  di comunicazione  e discorso pubblico abbiamo intervistato  Giancarlo Bosetti, giornalista, saggista, studioso fondatore e animatore di Reset.

 

Ci spieghi l’Arab Media Report nel cui contesto si tiene questa iniziativa?
L’esperienza di lavoro sul campo con i paesi arabi e musulmani ci ha convinto della necessità di ridurre la barriera linguistica (prima di tutto con l’arabo, ma anche con il farsi e il turco), creando un osservatorio dei media, Arab Media Report, che aiutasse con la competenza degli specialisti nelle tre lingue ad attraversare questo muro opaco che di fatto impedisce la conoscenza. Per questo la nostra associazione “Reset Dialogues on Civilizations” nata dopo il 2001 per promuovere il dialogo Est-Ovest ha dato vita a questo progetto, Arab Media Report. Nonostante la diffusione dell’inglese (però molto scarsa specie nei paesi arabi, a cominciare dal più grande: l’Egitto) i mondi mediatici sono isolati. Sulle questioni controverse abbiamo opinioni pubbliche che vivono dentro film diversi. Si riesce qui da noi a immaginare che per una gran parte delle opinioni arabe l’Isis può essere visto  e creduto una creatura israelo-americana per giustificare pretese imperialistiche e coloniali? Certo a intorbidare la visuale ci ha pensato Assad quando ha sostenuto l’avvio dell’Isis comprandogli il grezzo e finanziandolo per avere quello che sembrava un nemico di comodo, utile per screditare tutti i suoi avversari non-Isis. Niente in Medio Oriente è come sembra nelle lineari cronache correnti. Specialmente se attraversi la frontiera della lingua e chiedi agli arabisti di darti in trasparenza l’esperienza di chi vive immerso nel paesaggio mediatico arabo. Chi crede di capire le cose attraverso l’inglese incontra delusioni amare, come è avvenuto con Morsi. La corsa fallimentare dell’ex presidente egiziano verso l’islamismo più radicale e inconcludente era chiara con molto anticipo a chi ascoltava i suoi discorsi in originale e in diretta, molto più che attraverso la mediazione delle traduzioni edulcorate che arrivavano alle agenzie occidentali.

C’era e c’è un problema evidente. Il mondo visto da una televisione satellitare salafita egiziana è un altro rispetto al nostro. È un altro pianeta, un altro sistema solare… Pensiamo allo scatenamento delle violenze dopo l’episodio del filmetto amatoriale anti-islamico, Innocence of Islam. Si dava a credere che fosse un blockbuster dell’occidente e che tutti qui stessimo in fila per andarlo a vedere. Non quella stupida cosa che era. E poi teniamo conto che anche il mondo diplomatico, anche quello americano, ritiene sufficiente l’inglese per occuparsi seriamente di paesi arabi e musulmani. Un osservatorio che traduce e analizza, fornendo delle sintesi e delle interpretazioni attendibili, del mondo visto di là della barriera, attraverso riproduzioni sottotitolate per quanto possibile e con monografie, sarebbe indispensabile in Italia, data la nostra posizione, dovremmo fare molto di più di quel che abbiamo iniziato con Arab Media Report.

Avete trovato sostegni per realizzare questo progetto?
Devo dire che il Ministero degli esteri non solo ci ha appoggiato ma è stato il motore di questa iniziativa, ci ha spinto a realizzarla attraverso la Unità di analisi e programmazione, diretta prima da Pierfrancesco Sacco, poi da Armando Barucco. E poi abbiamo subito trovato il sostegno convinto dell’Eni, gestione Scaroni. Questo ci ha consentito di partire e lavorare per due anni producendo quel che ora siamo in grado di presentare. Ma ora mi auguro che altre aziende con interessi strategici nel Mediterraneo si facciano avanti. Da qui in avanti contiamo di sviluppare una offerta di informazioni mirata, e in buona parte riservata ai sottoscrittori. Avrei voluto fin dall’inizio, tre anni fa, che la Rai si interessasse del mondo arabo e che immaginasse anche una linea di produzione in arabo, come già fanno non solo la BBC, ma i piu’ importanti paesi europei (France 24, Deutsche Welle, per non parlare di Russia Today). La delega delle questioni internazionali, oltre che degli affari istituzionali, era alla Rai nelle mani di Marco Simeon, che ho letto poi essere un protetto del Vaticano di Bertone. E dunque in altre faccende affaccendato. Altri non v’erano che anche solo immaginassero un interesse per il mondo arabo, salvo alcuni giornalisti, e in particolare Monica Maggioni, ora presidente. La sua nomina lascia sperare un cambio, ma con la Rai, si sa, stravincono sempre i pessimisti.

In Europa e recentemente si sono tenute, che tu sappia, iniziative sul tema e di così ampio raggio?
So che altrove, come stavo dicendo, l’attenzione è molto più forte verso il mondo arabo. Da noi le università fanno fatica a muoversi, mancano fondi. Le cattedre che conosco e che sfornano idee e persone preparate sono alla Luiss di Roma (Francesca Corrao), alla Cattolica di Milano (Paolo Branca), ma sta di fatto che Donatella Della Ratta, specialista di media arabi, lavora a Copenhagen per università danesi e americane, ma qui non trova collocazione. A scoprire che le fiction turche avevano conquistato, doppiate in arabo, tutto il mercato arabo sono stati gli americani con i loro centri studi a Filadelfia e a Cipro. E pensare che non era un segreto, bastava guardare nelle tv arabe la serie su Solimano il Magnifico. Si capisce così che il soft power turco della fase ascendente di Erdogan marciava su queste gambe davvero neo-ottomane. Adesso raccontiamo tutta la storia in una monografia a più firme. Trovate tutto attraverso il sito www.arabmediareport.it.

Fra strategia di comunicazione  (Roy) e immagine (Gerges, Lindsey e Della Ratta) non c’è il rischio di qualche confusione interpretativa? Sarebbe un vero peccato.
Si tratta semplicemente di due cose diverse, e altrettanto importanti. Non sono in contraddizione, sono due aspetti del tema da conoscere. Olivier Roy è il maggiore studioso contemporaneo dell’Islam globale e ci fornisce il quadro più aggiornato  dell’Isis e della sua strategia di immagine, dai massacri di sciti alle decapitazioni davanti alle videocamere. Affronta il tema con gli strumenti della sociologia della religione. Gli altri sono analisti dei media e ci forniscono una analisi dell’Isis visto attraverso gli occhi del pubblico arabo.

Cosa pensi dirà chi mette insieme i  social media con Rouhani?

L’Iran che vien fuori da questi interventi si presenterà come una realtà contraddittoria all’estremo, uno spettacolo schizofrenico (la patologia che meglio rappresenta la situazione della Persia di questi anni). Le televisioni satellitari e le parabole sono proibite ma di fatto si diffondono, il governo le disturba ma non abbastanza da impedire che la gente le veda. Così anche per i social media, che portano la divisione, dopo l’elezione di Rohani, anche dentro il gruppo dirigente. È una storia che non si finisce mai di raccontare, perché la svolta in direzione contraria è sempre possibile e avviene. La convivenza con il paradosso sarebbe divertente se non avesse risvolti tragici, perché la linea di confine tra il lecito e l’illecito non è sempre chiara e a volte ti accorgi che c’era ed era molto importante solo quando finisci in carcere, senza sapere bene perché, come è accaduto al nostro amico filosofo Ramin Jahanbegloo, fortunatamente scampato al carcere di Evin, e come accade ancora a giornalisti americani. Quella linea di confine è arbitraria. Eppure i social media sono molto attivi e influiscono sulla vita politica, molto, anche se entro i limiti consentiti dal Consiglio dei Guardiani, che decidono chi ha diritto di candidarsi. Cosi lo stesso Rohani ha potuto vincere a sorpresa rispetto a ogni sondaggio grazie al sostegno di una campagna sugli smartphone. L’Iran di oggi induce a qualche ottimismo sui possibili sviluppi, ma è un ottimismo da sostenere sempre con la guardia molto alta.

Le tue speranze e le tue illusioni sulla Turchia e su Erdogan?
Le speranze attuali sono di due tipi diversi: una più realistica e un’altra più ambiziosa e a rischio forte di smentita. La prima è che l’elettorato continui a tenere Erdogan sotto pressione. Gli ha impedito finora di governare da solo, togliendogli la maggioranza assoluta, e ha premiato a sorpresa un partito guidato dal curdo Selahattin Demirtas portandolo al 13 per cento. Ora sembra che nonostante i massacri di Suruc e di Ankara la tendenza rimanga la stessa. Dunque credo che i turchi non daranno il via libera al monopolio di un uomo forte solo al comando, ma chiederanno una gestione più moderata e sapiente del potere, sia sul piano internazionale (troppo a lungo Erdogan ha esitato a intervenire contro l’Isis, ossessionato dal problema curdo e dall’idea che la rivolta in Siria cancellasse Assad) sia sul piano interno (gli eccessi nella repressione, il rallentamento della crescita, la ressa di profughi siriani nelle citta’ turche). La speranza piu’ a rischio è quella che lui impari la lezione e ne tragga le conseguenze, ridimensionando le sue ambizioni personali portandole a misura non di un sultanato ma di una democrazia comeèquella turca. La nostra monografia sull’impero dei media di Fetullah Gulen racconta una battaglia all’ultimo sangue che depone a favore dei pessimisti. Ma l’Europa può aver parte in queste speranze riaprendo con più coraggio il dossier Turchia, alla maniera della Merkel, non di Cameron e (già) di Sarkozy.

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