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Nimby: tra relazioni pubbliche e pericolose

03/03/2010

E’ difficile parlare di processi decisionali pubblici in un periodo storico come quello che stiamo vivendo. Utile, in proposito, la riflessione scaturita dal recente Convegno nazionale sul Nimby e l’intervista in esclusiva ad Alessandro Beulcke, presidente di Aris, l’associazione che dal 2004 gestisce l’Osservatorio Permanente sul tema.

Dopo il Nimby Forum di Roma, un ricco e stimolante approfondimento proposto dai nostri soci Fabio Ventoruzzo (CentroStudi) e Sergio Vazzoler (Nimby e processi decisionali inclusivi). Il menù propone:

le evidenze emerse dall’Osservatorio Nimby Forum
l’intervista ad Alessandro Beulcke (qui di seguito)

Una prima riflessione non può che essere legata all’attualità: mentre discutevamo degli spunti emersi dall’ultima edizione del Nimby Forum, siamo stati travolti dall’incalzante cronaca di una nuova (?) stagione gelatinosa, dal rinnovato tintinnar di manette legato agli appalti, dal disastro ambientale del fiume Lambro e dal sangue in Val di Susa.
In una cornice di questo tipo la sensazione d’impotenza per i comunicatori che tentano di rendere più facile il percorso di un’opera può essere tanto forte quanto pericolosa. La pericolosità sta proprio nel rinunciare a combattere una battaglia fondata sull’importanza attribuita alla parola, al linguaggio, alla forza dell’ascolto e del dialogo, alle mappe relazionali, al monitoraggio sistematico, insomma a insistere nel far comprendere il valore delle relazioni pubbliche e istituzionali (quelle vere!) ai nostri clienti interni ed esterni.
Ebbene, fatto un bel respiro, intendiamo allontanare il pericolo, ricominciando a fare ciò che siamo capaci: analizzare nuove e vecchie tendenze e lavorarci su…
Ecco, allora, che un’attenta rilettura del fenomeno ci porta a dover abbattere le tradizionali barriere tra organizzazione pubblica, privata e sociale. Una decisione amministrativa non è solo il frutto di volontà pubbliche ma l’espressione attuativa di una scelta organizzativa (pubblica, privata o sociale che sia). L’interpretazione del fenomeno Nimby, quindi, non dovrebbe limitarsi alla sola gestione successiva di una decisione amministrativa. Deve, invece, prendere in considerazione anche la fase di identificazione di un cantiere che – vista la crescente contestazione – deve essere accompagnata e preceduta da opportune politiche comunicative/relazionali programmate, consapevoli e costanti che non siano così solo funzionali all’attuazione della decisione, ma che in parte contribuiscano preventivamente al processo decisionale per la sua definizione.
Ognuno di noi è dunque chiamato ad operare in maniera responsabile per il superamento degli effetti Nimby che imbavagliano lo sviluppo economico e sociale. Proprio per la nostra crescente responsabilità nel governo della questione, il Gruppo di Lavoro Nimby di Ferpi, con il supporto del CentroStudi, lavora per arrivare alla definizione di linee guida utili a supportare i colleghi non tanto nella gestione operativa di una situazione di conflitto (lascia il tempo che trova un approccio buono per tutte le situazioni…), bensì nella costruzione di un cruscotto delle variabili comunicative di un territorio che si renda operativo prima ancora della decisione amministrativa e che possa arricchire e influenzare positivamente le scelte di un player aziendale, di un decisore pubblico o di un gruppo d’interesse.
Nel frattempo non smettiamo di studiare… a tal proposito segnaliamo la recente pubblicazione del libro di Alfredo Macchiati e Giulio Napolitano, edito da il Mulino , il titolo è auto esplicativo: E’ possibile realizzare le infrastrutture in Italia?
Ecco il colloquio tra Sergio Vazzoler – delegato Ferpi all’area “Nimby e processi decisionali inclusivi” – e Alessandro Beulcke, Presidente di Aris (agenzia di ricerche informazione e società), l’associazione che ha ideato e gestisce da cinque anni l’ Osservatorio Media Permanente Nimby Forum.
Quali sono le principali novità che emergono dall’ultima edizione dell’osservatorio?
Intanto, dal 2004, anno in cui è stato istituito l’Osservatorio Media Permanente Nimby Forum, ad oggi abbiamo registrato una continua crescita del fenomeno nel nostro Paese. Oggi sono 283 gli impianti contestati. Di questi 152 sono nuovi impianti, ma gli altri sono progetti oggetto di contestazioni da anni e addirittura 36 sono gli impianti che sono inseriti nel database fin dalla prima edizione. Si sono succeduti Governi, amministratori pubblici, sindaci e assessori, ma nulla è cambiato, quell’impianto continua ad essere in stallo. Senza entrare nel merito dei singoli casi, è evidente che c’è una stortura da qualche parte e che non si può pensare che questo favorisca lo sviluppo del Paese. L’altra novità riguarda il tipo di impianti oggetto di contestazione: circa il 50% sono impianti per la produzione di energia e tra questi annoveriamo anche impianti da fonti rinnovabili, in particolare eolico e biomasse, ma anche fotovoltaico. Eppure, sulla carta, la loro accettabilità sociale è più elevata. Un elemento che merita una riflessione particolare e che rischia di allontanarci ulteriormente da un’Europa sempre più orientata alle green technologies.

Quali conseguenze comporta sull’iter decisionale la crescente politicizzazione del fenomeno?
Dobbiamo partire da un presupposto: il fenomeno delle contestazioni è fisiologico e sano, perché nasce dall’esigenza legittima della popolazione di un territorio di non essere tenuta fuori da decisioni che influiscono direttamente sulla sua vita. Se questa esigenza non viene intercettata a tempo debito, cioè prima di avviare la realizzazione di un impianto, questo elemento può diventare patologico, in qualche modo si incancrenisce e non c’è più modo di iniziare un dialogo serio e specifico, sul merito del progetto, ricadendo invece in discorsi ideologici che non servono a nessuno. La politicizzazione di Nimby ha portato a una sua degenerazione: la politica tende a cavalcare il fenomeno e a “usarlo” in maniera ideologica per meri interessi di consenso. Tant’è che oggi non si parla solo di Nimby ma anche di Nimto, acronimo molto significativo che possiamo tradurre con “non durante il mio mandato” (Not In My Term of Office). Ci sono opere e infrastrutture la cui realizzazione è certamente complessa, nel momento in cui se ne è accertata la necessità, la politica deve sapersi far carico di una scelta e di un progetto di incontro con la comunità locale. Tutto ciò è certamente complesso, ma non ci sono altre vie di uscita veramente risolutive. A monte c’è un altro problema, la mancanza di una visione del futuro, di un’idea condivisa del bene del Paese. In mancanza di chiarezza in questo senso, inevitabilmente emergono e prevalgono gli interessi particolari, personali, che quasi mai vanno nella direzione del bene della comunità o del territorio.

Circoscriviamo il campo del Nimby agli aspetti di comunicazione. A cinque anni dalla prima edizione del vostro osservatorio, proviamo a tracciare un breve bilancio: quali sono gli aspetti che sono ormai diventati cultura condivisa nelle organizzazioni e quali invece i nodi irrisolti?
La sensibilità è cresciuta. Si ha la consapevolezza a livello generale che non si può realizzare un’infrastruttura senza coinvolgere in maniera diretta le persone che vivono in quel territorio. Lasciare fuori la demagogia, la scelta di promuovere processi partecipativi ha in sé ragioni di efficienza e di economicità; paga di più risolvere le cose bene prima che affrontarle dopo. Paga di più sciogliere tutti i nodi e procedere spediti che partire in quarta e poi fermarsi per anni. Con molta lentezza, si sta facendo largo anche da noi una cultura della partecipazione, sia a livello istituzionale, sia a livello di imprese. Queste però hanno ancora una scarsa dimestichezza con i processi di comunicazione: nel timore del confronto, scelgono di non esporsi, rinunciando a far emergere le loro ragioni che sono necessarie esattamente come quelle contrarie. Questa mancanza di autonomia, tra l’altro, le fa ostaggio della politica locale.

Nell’ultimo anno in Italia si sono tentate azioni di ascolto e partecipazione strutturati, sul modello del dibattito pubblico, già sperimentato con successo in Francia e Inghilterra. Che giudizio ne dai?
Finora ci sono esperienze sporadiche. Certamente, un segnale importante è venuto dalla Regione Toscana che ha introdotto nella sua legislazione una specifica Legge sulla partecipazione (n. 69/2007), una legge finanziata, attraverso la quale la Regione sostiene quei comuni che avviano un processo partecipativo a monte della realizzazione di un progetto. È un segnale importante proprio perché non risponde a una situazione di emergenza, ma vuole in modificare l’approccio maniera sistemica. Un’altra esperienza importante è quella portata avanti a Genova, per la realizzazione della Gronda autostradale: anche in questo caso le istituzioni sono state virtuose, l’iniziativa è stata presa dal sindaco di Genova che ha coinvolto la società Autostrade, l’Anas e i comitati, affidando a una commissione terza e imparziale la gestione del processo nel suo complesso. Queste esperienze devono essere integrate in un quadro normativo di riferimento capace di regolare l’intera procedura, dalla presentazione di un progetto alla sua realizzazione.
Un altro fenomeno emergente per chi tra di noi opera come consulente o all’interno delle organizzazioni è l’impatto dei nuovi media sociali. A livello di Nimby si nota un legame molto stretto tra il “comitatismo” e la Rete come amplificatore di messaggi, petizioni e iniziative sul territorio: cosa cambia nella relazione con gli stakeholder?
I comitati usano la rete per veicolare i propri messaggi in maniera molto efficace. Le aziende proponenti non sanno fare altrettanto; la comunicazione on line è spesso troppo istituzionale, fredda, poco accessibile. È invece molto importante che imparino a farlo, che imparino a comunicare anche gli elementi tecnici e scientifici nella maniera più aperta possibile. Non si tratta di usare la rete per azioni di contrasto, ma di fornire elementi necessari alla comprensione del progetto, alle ragioni che ne rendono necessaria la costruzione, alle opportunità di sviluppo, senza celare gli elementi critici che possono esserci e che bisogna considerare nel quadro completo.
Un’ultima parola sul grande tema del 2010: il ritorno del nucleare in Italia. Dal tuo osservatorio privilegiato, azzarda una previsione sul percorso dei prossimi mesi: ce la farà il Governo a far “digerire” le nuove centrali ai diversi backyard del Paese?
Non ho la sfera di cristallo ma si deve correre, e in fretta. I motivi sono molteplici. Intanto, veniamo da trent’anni di totale black out su questo tema: il nucleare era diventato un tabù e non se ne è più potuto parlare, così, al di là del ritardo scientifico e tecnologico che sconta nel settore la ricerca italiana, c’è un ritardo culturale e informativo profondo, chiamiamola pure ignoranza, che ci accomuna tutti come cittadini. Per questo fare informazione e comunicazione su questo tema è fondamentale, ma il Governo non si è ancora mosso, sebbene nella Legge Sviluppo si parli esplicitamente di campagne di comunicazione e dell’istituzione di un Comitato di confronto e trasparenza. Al contrario, le opposizioni si sono già attrezzate e come abbiamo detto precedentemente, possono sfruttare una rete già esistente di comitati locali e nazionali, sia reale sia virtuale. Un divario che non aiuta il dialogo. Ancora una volta quello che davvero manca è l’assunzione di responsabilità. Bisogna metterci la faccia, spiegando che il rilancio del nucleare si inquadra in una strategia complessiva di ristrutturazione del sistema energetico italiano che a sua volta nasce da un’analisi del fabbisogno energetico dell’Italia, un paese che vuole continuare a crescere. O no?
Fabio Ventoruzzo e Sergio Vazzoler
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