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Ogni tanto bisogna saper dire di no

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25/09/2023

Giuseppe de Lucia

Pandemia, Bruxelles e regolamentazione: questi i temi del dialogo con Jessica Nardin, Government Affairs Director Incyte Italia, per parlare di Pubblic Affairs nel mondo farmaceutico. 

Sono diversi anni oramai che ti occupi di relazioni istituzionali e sostenibilità nel settore farmaceutico. Come hai visto evolversi il ruolo delle relazioni istituzionali in questo settore, specialmente considerando la pandemia?

Tra il 2020 e il 2022 il settore farmaceutico e biotech ha vissuto una stagione di esposizione all’attenzione mediatica e al dibattico pubblico senza precedenti. Questo è un comparto che si è sempre molto concentrato sul core della propria attività –  fare ricerca e sviluppare terapie per trattare un sempre maggior numero di patologie – dimenticando talvolta di raccontare la bellezza ma anche la complessità di questa missione. È così difficile trovare il modo di narrare una storia che parla di salute, di progresso scientifico, di ricerca, di innovazione ma anche di sostenibilità economica, di sfide industriali, di competività che spesso, semplicemente, abbiamo preferito un approccio poco ambizioso e più conservativo, anche nelle relazioni con le istituzioni e con il grande pubblico. La pandemia ha costretto il settore a rivedere il proprio schema di gioco: all’improvviso sviluppare farmaci – addirittura farmaci che hanno permesso di contenere una pandemia globale – non è stato più abbastanza. Per chi si occupa di relazioni istituzionali e di comunicazione, questa stagione è stata tra le più complesse e sfidanti, in cui la nostra professionalità, che nel settore è relativamente giovane,  è stata spesso messa alla prova. Abbiamo imparato ad uscire dalla nostra storica autoreferenzialità, parlando al grande pubblico, anche sperimentando nuovi strumenti – penso al digitale -,  creando partnership con le istituzioni, portando le aziende nei tavoli nazionali strategici, scendo dall’angolo stretto delle politiche sanitarie, esponendoci quindi ad un più elevato grado di complessità ma dando voce, finalmente, all’ambizione e l’orgoglio di contribuire alla costruzione di un nuovo Sistema Salute. 

Quali sono, a tuo avviso, le competenze e gli approcci che ritieni essenziali per avere successo in questa professione? 

Capacità di ascolto, capacità analitiche e quella che gli esperti chiamano “intelligenza contestuale” e cioè saper unire eventi, fatti, informazioni, dati che a primo impatto possono anche apparire completamente distanti tra loro. Saper creare una storia di valore universale a partire da una esigenza o una istanza particolare, in altre parole, rinunciare all’interesse puramente particolare per trovare un punto di caduta che sia di interesse anche per il decisore pubblico e per la collettività. Per arrivare a questo risultato, occorre saper ascoltare, imparare, analizzare la storia che siamo chiamati a raccontare al mondo esterno e tradurla in un nuovo linguaggio, dandole una nuova lettura, una nuova collocazione nel dibattitto pubblico. E poi, beh, la mia competenza preferita: saper dire di no. Come porofessionisti del Public Affairs, abbiamo il dovere di respingere al mittente richieste troppo ambiziose o eccessivamente sbilanciate verso l’interesse del singolo che arrivano dall’interno dell’organizzazione che rappresentiamo. Abbiamo il dovere di settare delle aspettative realistiche, di trovare sempre un punto di equilibrio con l’interesse della collettività e di educare la comunità interna alla cultura della mediazione e del rispetto verso il decisore. 
È un lavoro che a me piace definire artigianale: ci sono delle regole da rispettare, c’è un metodo rigoroso da seguire ma nessuna storia di rappresentanza di interessi è uguale ad un’altra, non esiste una ricetta segreta, non c’è un manuale delle istruzioni: molto del nostro lavoro ha a che fare con lo stile, le inclinazioni, il background personale. 

Prima di lavorare in azienda, hai avuto un’importante esperienza presso il Parlamento UE. Quanto, questa esperienza, è risultata significativa nella tua crescita professionale?


Molto. Entrare a 23 anni nel cuore delle istituzioni europee mi ha consentito di avere un punto di vista privilegiato sugli schemi di interazione tra pubblico e privato, tra policy maker, società civile e industria. Non immaginavo di fare questo mestiere, allora. Ho imparato ad apprezzarne il ruolo e la capacità di rappresentare le proprie istanze con rigore e metodo, portando in dote dati ed evidenze solide, immaginando modalità anche creative per trovare un punto di vista di reciproco interesse e utilità. In ultima istanza, la responsabilità della scelta politica è nelle mani del decisore ma a noi è data la straordinaria possibilità di provare ad incidere sul processo decisionale portando al tavolo contenuti di qualità che di fatto contribuiscono a migliorare il processo democratico. Ancora oggi io lo considero un privilegio straordinario. 

A Bruxelles, l’attività di lobby e rappresentanza degli interessi, è regolata e i portatori d’interesse sono parte intergrante del processo di policy making. Nella tua percezione, quanto siamo distanti da quella dimensione e cosa manca nel nostro paese  per un pieno riconoscimento della professione?

A Bruxelles e a Strasburgo i rappresentanti di interesse non godono soltanto di un pieno riconoscimento professionale – con relativi onori ed oneri - ma sono anche apprezzati e spesso ricercati dalla comunità stessa dei policy maker perché ne viene riconosciuto il ruolo all’interno del processo di produzione normativa. In Europa si è sostanzialmente rotto il velo di ipocrisia che vuole il decisore pubblico sempre in grado di legiferare su ogni ambito dell’attività umana senza aver bisogno di ascoltare e considerare le posizioni e i punti di vista degli operatori di quel particolare settore o ambito. E infatti, come molti colleghi ed analisti sostengono, anche io sono convinta che il problema, nel nostro Paese, sia principalmente e primariamente culturale. Una legge, per quanto formalmente ben scritta, tradirà sempre un approccio punitivo nei confronti di chi fa rappresentanza di interessi e non sarà mai in grado di normare ogni singola fattispecie di interazione con il decisore pubblico. Pensare di poterlo fare è semplicemente utopistico. Più realistica, invece ma anche più faticosa è la strada della evoluzione culturale: preferisco immaginare una buona legge sulla lobby tra 10 anni, frutto di un dialogo maturo e consapevole con cittadini e politica piuttosto che una cattiva legge oggi, frutto di una approccio repressivo e punitivo.  

Quali consigli daresti ai giovani interessati a intraprendere una carriera nel settore delle relazioni istituzionali e delle relazioni pubbliche, basati sulla tua esperienza?

Oggi l’offerta formativa per chi è interessato ad intraprendere una carriera di questo tipo è solida e qualitativamente adeguata, se si è in grado di scegliere. Non siamo ancora arrivati alla creazione di un corso di laurea dedicato ma vi sono diversi master e corsi di perfezionamento post laurea che consentono di integrare le proprie conoscenze con un ventaglio di competenze cross-disciplinari, sia teoriche – penso al diritto parlamentare e al diritto europeo – che pratiche . penso alla presenza di numerosi professinisti all’interno delle Faculty che portano agli studenti esperienze e casi-studio empirici. Al di là degli specifici contenuti, tuttavia, c’è un aspetto che mi sta molto a cuore: ai giovani aspiranti lobbisti va trasferito il senso di responsabilità rispetto al ruolo che andranno a ricoprire e l’importanza del metodo, di regole, di processi che saranno chiamati  ad applicare con rigore e dedizione. I professionisti – e gli aspiranti tali - sono i primi a dover onorare la propria professionalità e non derogare su etica, disciplina e rigore. 

 

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