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Oltre la CSR, dove stiamo andando?

28/04/2009

La comunità italiana dei professionisti che si occupano di CSR è al bivio e le sfide sono molteplici. Sul tema è appena uscito il libro "Oltre la CSR. L'impresa del Duemila verso la Stakeholder Vision" scritto da Luigi Ferrari, Sebastiano Renna e Rossella Sobrero, con prefazione di Andrea Illy e post-fazione di Toni Muzi Falconi.

Pubblicato da Isedi, Oltre la CSR. L’impresa del Duemila verso la Stakeholder Vision è il libro scritto da Luigi Ferrari, Sebastiano Renna e Rossella Sobrero (socia Ferpi e delegata alla responsabilità sociale), con prefazione di Andrea Illy e post-fazione di Toni Muzi Falconi.
Qui il testo, tutto da leggere.



di Toni Muzi Falconi *


1.
La prospettiva di questa prefazione a un libro per molti motivi utilissimo, ma soprattutto perché esplicita e razionalizza parecchie delle contraddizioni e delle ambiguità insite nello stesso concetto di responsabilità sociale delle imprese, è quella di chi pensa che questa crisi economica sia soltanto uno degli effetti (in questo caso indesiderabile… ma in tanti altri desiderabili) di una discontinuità storica nella quale siamo immersi fin dalla fine del ventesimo secolo.


Una discontinuità che trae origine dal radicale sconvolgimento della nostra concettualizzazione dello spazio e del tempo, indotto dalle nuove tecnologie della comunicazione e dalla fortissima accelerazione che queste hanno prodotto sul processo di globalizzazione.
Un fenomeno che gli Stati Nazionali – la sovrapposizione, talvolta anche astratta, fra entità politica e socio-culturale di un territorio – non hanno saputo, come appare evidente dai fatti, governare con efficacia.


In parallelo alla sofferenza delle nostre economie, un secondo effetto esplosivo della discontinuità è la migrazione planetaria che ha investito trasversalmente il mondo negli ultimi due decenni.
Anche in questo caso, gli Stati Nazionali non sono stati capaci di governare il fenomeno. Al punto che, integrandosi e contaminandosi con questa crisi economica, la migrazione planetaria già oggi produce – ma in misura per ora ancora ridotta rispetto a quel che succederà – allarmanti fenomeni sociali e di ordine pubblico, soprattutto nelle grandi aree metropolitane del pianeta.


Sono questioni non risolvibili in pochi anni, e dobbiamo quindi – come studiosi, consulenti o professionisti del management – contribuire ad attrezzare le nostre organizzazioni a conviverci per parecchio tempo, abbandonando l’illusione di poter tornare, presto o tardi che sia, alla società che abbiamo imparato a conoscere.
Il conflitto fra queste due questioni e gli Stati Nazionali durerà almeno fino a quando questi ultimi non svaniranno (ipotesi astratta), oppure non condivideranno e applicheranno regole, sistemi di monitoraggio e di adeguamento che consentano di governare fenomeni irrimediabilmente globali (ipotesi più verosimile, ma non certo in tempi brevi).


2.
Non esiste oggi una leadership consapevole di organizzazione (pubblica, privata o sociale che sia) che non si ponga con urgenza e determinazione la domanda se i sentieri operativi fin qui perseguiti non meritino una radicale rivisitazione.
Gli autori di questo libro si pongono lo stesso quesito, peraltro ben consapevoli che la riflessione specifica sul tema della responsabilità sociale delle imprese è fortemente avvantaggiata – rispetto ad altre tematiche più appesantite da paradigmi, valori e processi del passato – da un corpo di conoscenze che, almeno in parte, ha assorbito culture recenti e già immerse nello ‘spazio culturale’ di quella discontinuità.


Infatti, se assumiamo una prospettiva organizzativa è chiaro che la scienza del management delle imprese risente ancora dei modelli attuativi del ventesimo secolo.
Se assumiamo invece una prospettiva sociale, risaliamo addirittura al secolo precedente e indietro ancora e le organizzazioni politiche, sociali e pubbliche che la interpretano, sono ancorate a paradigmi organizzativi ormai antichi.


Il conflitto, lacerante sia nelle organizzazioni che nella società fra il ‘ vecchio che resiste ’ e il ‘nuovo che avanza’ è sotto gli occhi di tutti; soprattutto, appare dirompente lo scontro della nuova realtà con la diffusa cultura di omogeneizzazione di modelli e di comportamenti, che è stata messa in ginocchio da una globalizzazione che, anziché generare ulteriori standard, ha enfatizzato le diversità, prodotte proprio da quelle tecnologie della comunicazione e dalla migrazione planetaria.


3.
Nel quadro di questa premessa, la responsabilità dell’organizzazione verso i suoi stakeholder presuppone a priori che non sia l’organizzazione a decidere chi sono.
Accetto dunque l’accezione di Freeman, purché sia chiaro che, almeno per chi analizza l’organizzazione (e non necessariamente per l’economista) gli stakeholder siano sempre loro a decidere di essere tali:


a) perché interessati a interagire con l’organizzazione;
b) perché consapevoli che le attività di questa producono conseguenze su di loro e viceversa.


Certo… l’organizzazione potrà sempre decidere di dialogare, negoziare e confrontarsi con chi ritiene, ma è una scelta che compie a suo rischio e pericolo nel contesto competitivo in cui opera.


Se il senso ultimo dell’organizzazione è raggiungere una efficace integrazione con la società circostante che le consenta di assumere decisioni di qualità anche perché tengono conto delle aspettative dei suoi stakeholder, scegliersi gli interlocutori evitando confronti talvolta anche sgradevoli e complicati, non pare una saggia decisione.
Ne consegue che il riconoscimento di chi siano gli stakeholder di una organizzazione è questione – si – anche di management, ma soprattutto di governance, intendendo con questo termine il governo del management in nome e per conto degli stakeholder.


Il primo principio di responsabilità della leadership, dunque, contempla decisioni e sviluppo di attività che siano anche (ma non soltanto) in linea con le aspettative, i valori, le opinioni e i comportamenti di quei pubblici dai quali, in larga misura, dipende il successo e quindi anche la legittimazione sociale dell’organizzazione.


Questo assioma, se condiviso e fatto proprio, spazza via qualsiasi dubbio su cosa si debba intendere per responsabilità sociale delle imprese (pubbliche, private e sociali): quel costante e quotidiano rinnovo della ‘licenza di operare’, intesa come abilitazione sociale dell’organizzazione al perseguimento legittimo delle finalità e degli obiettivi che intende perseguire.


4.
Naturalmente so bene che la consapevolezza di questi concetti base fatica a diffondersi.
Eppure sembrerebbe così semplice:



una organizzazione si forma quando diversi soggetti decidono di mettere insieme risorse e competenze relazionandosi fra loro per raggiungere finalità e obiettivi comuni e condivisi;
al fine di perseguire entrambi, l’organizzazione entra, a sua volta, in relazione con ulteriori soggetti che producono conseguenze sulle sue attività e che, a loro volta, subiscono conseguenze dalle sue attività.



A parità di servizi, condizioni economiche e prodotti offerti, il successo dell’organizzazione dipenderà quindi anche dalla qualità del governo dei sistemi di relazione che avrà saputo instaurare con i suoi stakeholder (che non sono mai gli stessi per due organizzazioni, anche se appartenenti allo stesso settore di attività. Quello di considerare gli stakeholder categorie indistinte e gli stessi per organizzazioni diverse è un errore che si possono permettere gli economisti che non vengono chiamati a relazionarsi con loro, ma di certo non a chi deve comunicare con loro).


Se dunque il primo principio di responsabilità del management è quello, sì, di prendere decisioni efficaci e di attuarle nei tempi previsti – pena la inevitabile trasformazione di una decisione efficace in inefficace al punto che la sua qualità è fortemente condizionata dai tempi di attuazione – nell’ambito di quel principio rientrano anche, e divengono sempre più rilevanti:


a) la competenza nell’ascolto delle aspettative, delle opinioni, dei comportamenti e delle decisioni degli stakeholder;
b) la competenza specifica di governo dei sistemi di relazione con gli stakeholder;
c) la puntuale e trasparente rendicontazione delle performance organizzative, che di certo non può esaurirsi in quei moderni coffee-table-book rappresentati dalla gran parte dei bilanci sociali in circolazione.


Ne consegue che un efficace governo delle relazioni con gli stakeholder – la nuova frontiera di quelle che da oltre un secolo chiamiamo, nella loro più nobile accezione, relazioni pubbliche – assume oggi un ruolo centrale sia nella governance che nel management delle organizzazioni.


5.
Rimane poi, tra le tante, una questione aperta, e tutt’altro che irrilevante.
Nel processo di governo delle relazioni interagiscono tre livelli di interesse:



quello dell’organizzazione, definito di volta in volta dal management in coerenza con gli obiettivi specifici perseguiti e nel contesto di una strategia, intesa come percorso operativo che accompagna la transizione dell’organizzazione dalla sua missione (cosa siamo oggi) alla sua visione (dove vogliamo essere in un determinato lasso di tempo);
quelli, sempre diversi e spesso in conflitto fra di loro, degli stakeholder specifici dell’organizzazione;
quello che usiamo definire interesse pubblico.



Nella cultura europea, l’interesse pubblico viene solitamente rappresentato dallo spirito della normativa vigente, integrato caso per caso dagli interessi sociali rappresentati dai soggetti della cittadinanza attiva.


E qui si apre un problema interpretativo riferito agli indicatori specifici che l’organizzazione adotta per assicurare la rilevanza dei sempre più numerosi soggetti che si dichiarano stakeholder.
Un problema che impone al management una riflessione assai più attenta rispetto a quella attuale.


Anni fa, nel corso di uno dei sempre utilissimi Colloqui di Frascati, Giovanni Moro, spronava le organizzazioni a passare dal generico concetto di rappresentatività a quello più specifico di rilevanza, indicando alcuni possibili criteri e distinguendoli fra oggettivi (dimensioni, ambiti territoriali, livello e campo di attività, stabilità, risorse, trasparenza e accountability) e valutativi (esperienza, competenza, reputazione, indipendenza, fiducia, capacità di networking, organizzazione interna, capacità di rendere visibili interessi specifici, qualità dei progetti).


Suggestivo assai, ma è chiaro che molto lavoro resta ancora da fare per evitare il diffuso, frequente e voluto comportamento che vede l’organizzazione selezionarsi i rispettivi stakeholder, privilegiando criteri quali l’amicizia, i rapporti politici, la capacità di lobbying e la prevalenza dei soggetti forti.


Se accettiamo le forti e stimolanti suggestioni degli autori di questo libro, dobbiamo anche essere pienamente consapevoli che le qualità e le competenze primarie richieste oggi al management delle organizzazioni sono radicalmente diverse da quelle solitamente premiate dai cacciatori di teste e insegnate anche nelle migliori scuole di direzione, per non parlare di quelle Italiane…in larga parte sono ancorate al ventesimo secolo.


Una ragione in più per una radicale rivisitazione degli approcci e dei processi direzionali delle organizzazioni in questa ‘discontinuità storica’ che stiamo vivendo.



* Senior Counsel Methodos, Docente di Global Relations and Intercultural Communication alla NYU e di Relazioni Pubbliche alla LUMSA
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