Perché non si è mai preparati quando scoppia una crisi?
09/06/2016
Esperti di crisis management e comunicazione ambientale si sono confrontanti durante il seminario “Crisis Management. Perché non si è mai sufficientemente preparati quando scoppia una crisi? Un’ipotesi di cassetta degli attrezzi” promosso dal Gruppo di lavoro Comunicazione del Sistema Nazionale Protezione Ambientale in collaborazione con Ferpi per le Agenzie Ambientali. L’intervista a Sergio Vazzoler di Giovanni Landolfi.
Dialogo tra comunicatori esperti di crisis management e ambiente in un seminario promosso dal Gruppo di lavoro Comunicazione del Sistema Nazionale Protezione Ambientale in collaborazione con la Commissione di Aggiornamento e Specializzazione Professionale di Ferpi per le Agenzie Ambientali, lo scorso 10 maggio. Con la “regia” di Giampietro Vecchiato, Direttore Clienti di PR Consulting, attraverso una serie di interviste a esperti del settore, è stata presentata la cassetta degli attrezzi “minima” che ogni crisis manager deve possedere, anche tramite il racconto di alcune case history.
Qui il resoconto della giornata a cura di Arpat News, con gli abstract degli interventi di Giampietro Vecchiato, Luca Primavera responsabile comunicazione Zambon, Giovanni Viafora vice direttore del Corriere del Veneto, Ferruccio Di Paolo del Dipartimento dei Vigili del Fuoco – soccorso pubblico e difesa civile del Ministero dell’Interno.
Di seguito riportiamo, invece, alcuni passaggi dell’intervista di Giovanni Landolfi, consulente in comunicazione d’impresa e titolare di StampaFinanziaria a Sergio Vazzoler, consulente in comunicazione ambientale e partner di Amapola.
Qual è la difficoltà principale che incontri quando devi gestire un’emergenza ambientale?
La
rapidità e il sangue freddo con cui far partire un’azione coordinata di intervento, tanto operativo quanto comunicativo…ma si sa che le emozioni, le paure e lo stato di emergenza non aiutano: ecco perché poter contare su una
procedura di comunicazione di crisi pronta all’uso può essere decisiva nel far adottare i comportamenti più corretti alle persone coinvolte nella
“regia” degli interventi da mettere in campo. In assenza di adeguata preparazione, tutto sarà più complicato e le “scivolate” comunicative più frequenti. Ovviamente ciò
non vuol dire che il “manuale di crisi” sia sufficiente, ma elimina tutta una serie di potenziali errori e dimenticanze che consentono poi di adattare con maggiore focalizzazione le azioni al contesto che si vive in quel momento.
In caso di emergenze, gli enti pubblici e le agenzie per l’ambiente talvolta preferiscono prendere tempo, comunicare il meno possibile: qual è la cosa giusta da fare?
Si, questo purtroppo è un comportamento ricorrente. E onestamente spesso non si limita agli enti pubblici e alle agenzie ma coinvolge anche le imprese, tanto quelle piccole quanto quelle più grandi e strutturate. Intendiamoci, il “prendere tempo” prima di comunicare indicazioni sbagliate è saggio ma al contempo tutti quanti devono essere consapevoli del tempo in cui viviamo e dei meccanismi della diffusione delle informazioni in tempo reale e in modo del tutto disintermediato.
Discorso opposto, invece, vale per la volontà di “comunicare il meno possibile”: questo è un errore senza appello in quanto semplicemente ci sarà qualcuno prima di noi che comunicherà e in modo non controllato o consapevole.
In sintesi, non c’è alternativa:
comunicare in modo diffuso e consapevole è la miglior ricetta per affrontare l’emergenza.
La pressione della stampa e dei social network è quasi sempre superiore alle forze che un’organizzazione può mettere a disposizione nei casi di crisi: qual è la tua ricetta per far fronte a questo tipo di difficoltà?
La difficoltà è reale. Occorre stare attenti a non usarla come scusa per non adeguare la propria organizzazione a una cultura di comunicazione. Spesso, infatti, dietro alla disparità di risorse si cela la pigrizia o, in alcuni casi, il rifiuto a considerare la comunicazione come parte integrante della missione stessa dell’organizzazione. Salvo poi riscoprirsi “scoperti” nel momento dell’emergenza proprio da questo punto di vista.
Se non ci sono possibilità di inquadrare figure ad hoc all’interno delle organizzazioni, una valida alternativa può essere
usare la formazione specifica. Un altro tassello fondamentale è dato poi dal
fare “rete” con le altre strutture esistenti sul territorio, in modo da creare una cabina di regia dove ci sia almeno una risorsa dedicata alla comunicazione.
Nelle situazioni di crisi i media sono sempre concentrati sui danni, sui rischi, sui costi, sulle responsabilità: nella tua esperienza, quale può essere la chiave per cambiare la narrazione dal negativo al positivo?
Questa è una delle sfide più grandi per chi si occupa di comunicazione ambientale. Certamente non è nell’emergenza che si può intervenire su questa tendenza consolidata. Molto invece si può fare
a monte: innanzitutto passando da un linguaggio per addetti ai lavori ad una
comunicazione più semplice e largamente
comprensibile. Occorrerebbero
“cornici di significato condiviso” in cui incasellare i temi e le sfide ambientali. È un po’ quello che i linguisti americani hanno insegnato alla politica: mutare i frame valoriali di riferimento per avvicinarsi al vissuto quotidiano degli elettori. Cornici nelle quali possa ritrovarmi al di là degli strumenti culturali che possiedo. Perché le battaglie, alla fine, si vincono con le maggioranze. E poi bisogna fare uno sforzo ulteriore da parte di chi, come me, si occupa di comunicazione ambientale, nel far emergere dello stesso problema ambientale il risvolto di opportunità. Non a caso sul climate change un cambio di direzione si è avuto quando il mondo del business ha capito le opportunità economiche derivanti da un cambio di prospettiva dall’economia fossile a quella green. Ma la strada è ancora lunga e in salita…
La terzietà di soggetti come le Arpa ha un suo lato negativo: nel senso che quando producono dati “scomodi” entrano in collisione con aziende, cittadini, comitati, amministratori pubblici. Come si esce da questa contraddizione?
Tema molto serio, ma indipendente dalle Arpa stesse. Nel senso che le
Agenzie scontano la mancanza di fiducia che colpisce anche gli
amministratori pubblici e le aziende. Da questa contraddizione si esce soltanto insistendo con la cultura della
trasparenza, da un lato, e della
responsabilizzazione e maggiore consapevolezza dei cittadini, dall’altro lato. Strumenti di
maggiore condivisione dei processi ambientalisarebbero davvero auspicabili a patto di fissare regole d’ingaggio precise e un iter decisionale preciso.
Grandi emergenze e piccole emergenze (piccoli sversamenti, incendi, morie di pesci, piogge torrenziali): vanno gestiti allo stesso modo?
Le differenze esistono.
In caso di grandi emergenze diventa assai più critico
il fattore tempo e la rete di coordinamento con cui gestire la crisi. Ciò che invece
non cambia è la sequenza da attivare nei confronti del territorio: informazione capillare, relazioni privilegiate con enti e organi istituzionali, inviti ai comportamenti da tenere, attivazione canali di ascolto e di raccolta informazioni dal basso, controllo e facilitazione delle comunicazioni informali, motivazione delle scelte e follow-up.
In una crisi i tempi di reazione sono cruciali, ma gli stakeholder sono molteplici e non sempre è possibile rispettare tempi e richieste: come si fa a gestire questa complessità?
Ancora una volta: con un cruscotto ben definito la complessità si può ridurre. E comunque sia occorre anche definire le procedure con cui si gestiscono le risposte negative alle richieste non pertinenti o isolate, favorendo risposte aggregare a istanze simili o comuni. Nella fase di emergenza così come è un errore non comunicare, lo può essere pure comunicare troppo e male.
Come valuti in generale la capacità delle agenzie ambientali di fare comunicazione ambientale? Quali sono i punti di forza e gli aspetti migliorabili?
Le Agenzie di protezione ambientali devono osservare e misurare attentamente le richieste delle comunità in termini di accesso alle informazioni ambientali. Soltanto tramite un
ascolto strutturato delle istanze dei cittadini – e non solo quelle dei gruppi organizzati – si potrà
calibrare la
comunicazione esterna dei temi ambientali. L’obiettivo a cui tendere è diffondere dati e conoscenze interagendo con i propri interlocutori (e non solo informarli): è così che si accorciano le distanze e si fanno vivere delle esperienze da cui trarre maggiore consapevolezza rispetto a temi indubbiamente complessi e delicati. Pur nel rispetto dei ruoli diversi, penso che tutti i soggetti che comunicano l’ambiente devono seguire un percorso comune: abbandonare i propri schematismi e la routine per intraprendere una strada fatta di ascolto, dialogo, feedback e rielaborazione continua. Insomma, anche
le Agenzie devono compiere un salto culturale ancor prima di pensare a quello o quell’altro strumento di comunicazione: sta qui la sfida da cogliere.
Per approfondimenti sullo stesso tema, rimandiamo alle interviste di
Giovanni Landolfi,
Giampietro Vecchiato e
Sergio Vazzoler sul sito Arpat News.
Pubblicato anche su Amapola