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'Professioni, decide solo lo Stato'. (Giornalisti vicini alla laurea)

13/01/2004

Tabloid n. 1/2004 - La sentenza (n. 353, depositata il 12 dicembre 2003) della Corte costituzionale chiarisce i confini del nuovo Titolo V della Costituzione. Di Franco Abruzzo

Le Regioni non possono istituire nuove professioni. Questo è l'assunto centrale della sentenza n. 353 (depositata il 12 dicembre 2003) della Corte costituzionale, che ha abrogato (in quanto "illegittima") una legge piemontese istitutiva di figure sanitarie. La sentenza chiarisce l'ambito delle competenze concorrenti tra Stato e Regioni e afferma che la materia delle professioni, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, appartiene soltanto allo Stato. La Consulta scrive: ".non pare quindi dubbio che, anche oggi, la potestà legislativa regionale in materia di professioni sanitarie debba rispettare il principio, già vigente nella legislazione statale, secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, debba essere riservata allo Stato..la legge della Regione Piemonte n. 25 del 2002 .. viene soprattutto ad incidere su aspetti essenziali della disciplina degli operatori sanitari senza appunto rispettare, in violazione dell'art. 117, terzo comma della Costituzione, il principio fondamentale che riserva allo Stato la individuazione e definizione delle varie figure professionali sanitarie".
Il principio affermato dalla Consulta non è nuovo. Nella sentenza n. 38/1997, la Corte aveva, infatti, affermato che "rientra nella discrezionalità del legislatore ordinario determinare le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è opportuna l'istituzione di ordini o collegi e la necessaria iscrizione in appositi albi o elenchi ( art. 2229 cod. civ.)". L'importanza della nuova pronuncia è tutta nelle date: la sentenza del 12 dicembre 2003 è la prima dopo la riforma (legge costituzionale. 18 ottobre 2001 n. 3) del Titolo V, che al terzo comma dell'articolo 117 afferma: "Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato". Una sentenza della Corte costituzionale (la n. 271 del 22 luglio 1996), in tema di principi fondamentali, afferma che "nella materia di competenza concorrente, i principi fondamentali risultanti dalla legislazione statale esistente, assolvono alla funzione loro propria, che è quella di unificare il sistema delle autonomie ai livelli più alti, solo quando hanno il carattere di stabilità e univocità". La sentenza n. 353/2003 ribadisce sul punto che "i relativi principi fondamentali, non essendone stati, fino ad ora, formulati dei nuovi, sono pertanto da considerare quelli, secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentenze n. 201 del 2003 e n. 282 del 2002), risultanti dalla legislazione statale già in vigore".
L'assetto attuale delle professioni. Il Dlgs n. 300/1999 affida al Ministero della Giustizia la vigilanza sugli Ordini professionali e al Ministero dell'Istruzione/Università la "missione" di formare i nuovi professionisti. Il comma 18 dell'articolo 1 della legge n. 4/1999 conferisce al ministero dell'Istruzione/Università, di concerto con quello della Giustizia, il compito di "integrare e modificare" con regolamento gli attuali ordinamenti sull'accesso alla professioni e di raccordarli con le lauree triennali e con le lauree specialistiche biennali. Il regolamento (Dpr n. 328/2001) disciplina la maggioranza delle professioni intellettuali (dottore agronomo e dottore forestale, agrotecnico, architetto, assistente sociale, attuario, biologo, chimico, geologo, geometra, ingegnere, perito agrario, perito industriale, psicologo) e trascura quelle dei giornalisti, degli statistici e dei consulenti del lavoro. Con parere 7 maggio 2002 n. 2228 il Consiglio di Stato ha scritto che "non sussistono motivi ostativi alla riforma dell'ordinamento professionale dei giornalisti, come previsto dall'articolo 1 (comma 18) della legge n. 4/1999".
L'Ordine di Milano pronto a disapplicare la normativa italiana sull'accesso a favore di quella comunitaria che prevede il possesso di una laurea minima triennale. Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, si è ritenuto (erroneamente) che lo Stato avesse perso i suoi poteri regolamentari e che non potesse, quindi, riscrivere il Dpr n. 328/2001, allargandolo ai giornalisti, agli statistici e ai consulenti del lavoro. Si può affermare, con Vincenzo Caianiello, che "tutto ciò che attiene allo status del professionista e delle libere professioni è riconducibile all'articolo 33 della Costituzione, il quale parla di esame di Stato" (Vincenzo Caianiello, "L'inserimento delle professioni nel titolo V della Costituzione" in Atti del Convegno nazionale "Quale federalismo per le professioni" del 18 marzo 2002 in Codroipo-Ud).Il Ministero dell'Istruzione-Università nell'ottobre scorso ha rimeditato la questione del collegamento tra laurea universitaria, praticantato giornalistico ed esame di Stato. Il Ministro Letizia Moratti ha dato disco verde alle modifiche del Dpr n. 328/2001, istituendo una commissione ad hoc guidata dal sottosegretario di Stato Maria Grazia Siliquini. Conseguentemente il Consiglio dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha bloccato una delibera con la quale lo stesso Consiglio, quale autorità amministrativa, avrebbe disapplicato (in forza delle sentenze n. causa 103/1988 della Corte di Giustizia Ce 22 luglio 1989 e n. 389/1989 della Corte costituzionale) l'articolo 33 (commi 4, 5, 6 e 7) della legge n. 69/1963, affermando la prevalenza (in base alla sentenza n. 389/1989 della Corte costituzionale) sulla norma interna della Direttiva n. 89/48/CEE. Questa direttiva, in base alla sentenza della quarta sezione della Corte di Giustizia europea nella causa C- 285/00, si applica "alle professioni regolamentate, cioè a quelle per le quali l'accesso o l'esercizio sono subordinati, direttamente o indirettamente, mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di un diploma universitario della durata minima di tre anni".Sono mutati i requisiti culturali per l'esercizio di una professione nell'ambito dei Paesi Ue e, quindi, i giornalisti professionisti italiani non possono essere discriminati rispetto agli altri professionisti italiani e a quelli europei sotto il profilo della preparazione universitaria minima di tre anni, principio al quale devono attenersi anche alcune professioni un tempo collegate a un diploma di scuola media superiore (geometri, ragionieri, periti agrari e periti industriali).Con l'iniziativa del ministro Moratti e del sottosegretario Siliquini, è prevedibile che nel giro di 4-6 mesi l'accesso al praticantato giornalistico e all'esame di Stato sia vincolato esclusivamente al possesso di una laurea (qualsiasi) conseguita al termine di un percorso minimo di tre anni. La pratica (di durata biennale) potrà essere svolta nelle redazioni (di quotidiani, periodici, agenzie di stampa, telegiornali, radiogiornali, testate web); nelle scuole di giornalismo, nei master universitari e nei corsi di laurea in giornalismo (riconosciuti dall'Ordine). La modifica del Dpr n. 328/2001 presuppone una prima approvazione del testo da parte del Consiglio dei Ministro, l'acquisizione successiva di tre pareri (tra i quali quello del Consiglio di Stato) e, quindi, una seconda approvazione da parte del Consiglio dei Ministri. Segue la pubblicazione del Dpr nella Gazzetta Ufficiale. Un Dpr, che, comunque, fotografa una situazione esistente: già oggi 8 praticanti su 10 sono laureati.
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