Purtroppo lo avevamo previsto da tempo: la moda della CSR dilaga e rischia di produrre per le organizzazioni che la cavalcano danni superiori ai benefici. Quanto di questa deriva vada attribuita a noi relatori pubblici è discutibile, ma è indubbio che il fenomeno ci riguarda da vicino, così come è sicuro che per non buttare via il bambino con l'acqua sporca spetta anche a noi una serena e possibilmente realistica valutazione del fenomeno.Partiamo intanto dalle ragioni di quei soggetti che nelle ultime settimane hanno avviato, più o meno pubblicamente, un ripensamento rispetto alla recente esaltazione acritica della CSR (giornali, associazioni, centri studi, leader di opinione) e proviamo a capirle.1.E' assai diffusa la percezione che la comunicazione della responsabilità sociale sia per molte organizzazioni una pura operazione di immagine e che alle politiche annunciate non corrispondano fatti e cambiamenti reali. A dimostrarlo è il fatto che la stessa responsabilità delle politiche di csr viene assegnata alle direzioni comunicazione e relazioni pubbliche, funzioni ritenute inadeguate ad incidere sui comportamenti organizzativi, semmai soltanto sulla loro rappresentazione pubblica.L'argomento può dispiacerci, ma non possiamo negarne la consistenza. Meglio sarebbe ora - non avendo voluto o potuto operare prima perché la definizione e l'attuazione delle politiche di CSR venissero assunte in prima persona dal vertice o comunque da altra funzione direttiva dotata davvero del potere di attuare il cambiamento dei comportamenti organizzativi - che i direttori della comunicazione e delle relazioni pubbliche si adoperassero per acquisire maggior peso interno alle organizzazioni, argomentando il rischio reale di dissipare quel minimo di credibilità che in questi ultimi anni la comunicazione della csr ha saputo comunque conquistare.Chi abbia avuto modo di lavorare sul campo sa bene che per una organizzazione il beneficio più duraturo e autentico della rendicontazione delle sue politiche di responsabilità sociale, sta soprattutto nei processi di definizione degli indicatori, della raccolta e descrizione dei comportamenti e nella definizione di nuovi obiettivi da raggiungere al fine di consolidare quella licenza di operare che viene concessa soltanto a una organizzazione capace di comunicare con sobrietà, sincerità e tempestività con i suoi stakeholder, di ascoltarne le aspettative e di assumerle, nei limiti del possibile, come proprie.Se per mille ragioni anche nobili o semplicemente razionali e accettabili, questi benefici non risultano immediatamente evidenti allo stesso relatore pubblico coinvolto nel processo, è molto meglio visto che nessuna legge glielo impone - evitare di sovraffollare l'arena della CSR, o perlomeno della sua rendicontazione pubblica, per non coinvolgere nella generale caduta di credibilità dello strumento anche quelli che lo fanno con serietà e con impegno visibile e diretto del vertice e dell'insieme dell'organizzazione.2.Una seconda questione rilevante è la cosiddetta 'rappresentatività' degli stakeholder. L'allarme lo aveva lanciato già diversi anni fa a Frascati Alessandro Profumo nel contesto di una iniziativa di Cittadinanzattiva. Quali sono i 'paletti' che noi relatori pubblici usiamo per 'ascoltare' gli stakeholder e qual è la credibilità effettiva che quelle aspettative raccolte siano anche lontanamente rappresentative e, quindi, significative?Nella società politica, la rappresentatività democratica è assicurata dal processo elettorale. Ma, come sappiamo, quella stessa democrazia rappresentativa che andiamo oggi imponendo ad altre culture anche con l'uso delle armi è fortemente in crisi; per non parlare della rappresentatività nel mondo del lavoro espressa dai sindacati; o di quella espressa nel mondo associativo dalle assisi pubbliche sempre meno oceaniche.C'è chi suggerisce di sostituire questi pur barlumi di rappresentatività (e sono i soli di cui oggi disponiamo..quindi prima di buttarli via..) con nuovi strumenti che vanno dai deliberative polls di Fishmann alla riforma della costituzione voluta da Bossi, alla demagogia televisiva delle leadership politiche.Temi troppo grandi da scaricare sulle spalle di noi relatori pubblici solo perché veniamo chiamati a fare, come si dice oggi, 'stakeholder engagement', l'ascolto degli stakeholder di una organizzazione? Forse sì, ma come possiamo non porci alcune domande? Chi sono gli stakeholder da consultare?E' sufficiente dire: i dipendenti, i fornitori, i distributori, gli azionisti, i clienti, i protagonisti del processo decisionale, i media, le comunità locali, il terzo settore (la società di mezzo, come preferiscono dire oggi gli amici di Vita)?Facile dirlo, ma difficile farlo in modo, appunto, 'socialmente responsabile'.Mi spiego: prendiamo ad esempio i fornitori.Diciamo che per una impresa i fornitori sono 1000 e che l'80% del volume di affari che genero per loro si concentra in 200. Che faccio? Ascolto soltanto questi per alcuni dei quali il mio fatturato rappresenta delle briciole perchè sono imprese importanti e influenti e trascuro gli altri 800 per molti dei quali invece il mio fatturato rappresenta il cibo quotidiano per crescere?Oppure, prendiamo i media. Ascolto quelli per i quali la mia azienda è di fatto irrilevante ma che a me interessano di più perchè sono più potenti, oppure quelli di cui poco mi interessa ma per i quali la mia azienda è molto importante?E così via per ogni categoria. Come vedete il dilemma è sempre fra la via lunga e la scorciatoia. La prima richiede tempo, applicazione, razionalità; la seconda offre beneficio a breve, influenza, relazione. Non si tratta, intendiamoci, di problemi politici rilevanti e neppure insormontabili e per ciascun gruppo, con un pò di compiti a casa, potrò individuare criteri accettabili e sensati per avvicinarmi il più possibile ad una equa interpretazione del concetto di rappresentatività.Ma quanti di noi lontanamente si pongono questa problematica se, come si osserva ogni giorno, la gran parte si limita a chiamare la società di ricerca dicendo: intervistami 50 giornalisti, 100 azionisti, 80 fornitori e, mi raccomando non fare domande che suscitino risposte critiche che poi devo pubblicarle sul mio triple bottom line.Già sarebbe un buon punto di partenza condividere il fatto che stakeholder non è qualifica attribuita dall'azienda stessa, ma è lo stesso stakeholder a ritenersi tale e che quindi è del tutto inutile, superfluo e oneroso andare ad intervistare persone che della mia azienda non sono neppure consapevoli e comunque, anche se lo fossero, non esplicitano interesse ad una relazione poichè con produce su di loro pochissime conseguenze. Perlomeno si possono evitare scene come quella cui ho assistito l'altro giorno: un amico assai influente sulla scena pubblica mi incontra per strada e inveisce contro di me urlando: 'maledizione a te e alla tua corporate social responsibility! soltanto questa settimana ho ricevuto cinque telefonate da altrettante società di ricerca che mi chiedono interviste per conto di altrettante grandi imprese di cui non mi frega nulla, per commentare il loro triple bottom line. Mi fanno perdere un sacco di tempo e ora, per colpa di qualche cretino di pr che non ha fatto i compiti a casa ora, visto che non posso rifiutare le interviste, perchè sono amici che non sanno a che santo votarsi, ne parlerò male'.Olè! Ben fatto!(tmf)Un articolo di Toni Muzi Falconi.