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Scienze della comunicazione: un capro espiatorio

20/01/2011

L'intervento del Ministro dell'Istruzione a Ballarò rilancia il dibattito sui corsi di laurea in Scienze della Comunicazione. Il vicepresidente Ferpi, _Giampietro Vecchiato,_ sostiene che l'attacco a questo percorso formativo è un chiaro segnale del mancato riconoscimento di una professione che, invece, in controtendenza (dati Almalaurea), produce occupazione.

di Giampietro Vecchiato (*)
Quando si parla di disoccupazione e di precariato giovanile si punta sempre il dito contro le discipline socio-umanistiche, in particolare sulla famigerata laurea in Scienze della Comunicazione. L’Università degli Studi di Padova – “città di gran dottori”- da più di dieci anni offre due corsi di laurea (uno triennale ed uno magistrale) in comunicazione, ambito che il Ministro Gelmini nella puntata di Ballarò dello scorso 11 gennaio ha definito «inutile».
Vero, se per inutile intendiamo l’intangibilità e la novità dei servizi che la professione può offrire. Una laurea in Comunicazione non permette certo di acquisire le competenze per costruire ponti, né la capacità di salvare vite umane, ma di certo “inizia” i suoi studenti a interpretare e a saper gestire il contesto dinamico e globale in cui siamo, e sempre più saremo, immersi. Falso, se per inutile intendiamo un agire privo di effetti. I professionisti della comunicazione si muovono su una pianificazione strategica di lungo termine, creando un’identità, una reputazione, un’immagine vincenti che danno un valore aggiunto alle aziende e alle organizzazioni, ai prodotti e ai servizi. Solo una figura trasversale, con dimestichezza in discipline che spaziano dalla psicologia all’internet marketing, dall’economia alla storia, dalle relazioni pubbliche alla linguistica, è in grado di trasmettere consapevolmente un messaggio efficace all’opinione pubblica e a tutti gli stakeholders. Del resto, i contenuti di un sito web, il testo di una brochure, lo slogan pubblicitario, la creazione di un evento in linea con la mission di una azienda, le gestione delle relazioni con i mass media, sono tutte attività che richiedono competenze specifiche nei diversi aspetti della comunicazione. Tutto questo è inutile o nel contesto competitivo attuale è imprescindibile e un fattore critico di successo?
Se l’opinione pubblica – compresa la componente politica – stenta a riconoscere l’esistenza del ruolo del comunicatore, ciò è dovuto al fatto che gli sbocchi occupazionali sono tanti e diversificati ma, sicuramente ci sono. Le statistiche parlano chiaro, secondo le ricerche di Almalaurea, i laureati di secondo livello occupati in comunicazione sono il 78% contro, ad esempio, il 51% di giurisprudenza. Ad un anno dalla laurea lavora il 55,3 % dei laureati, rispetto al 53,7% della media nazionale. A tre anni la percentuale sale all’85,4% (la media nazionale è del 73,8%), a cinque anni gli occupati sfiorano la quasi totalità con una percentuale di 92% (Almalaurea). Nello specifico, nell’esperienza dell’Università di Padova, grazie alla ricerca della docente di metodologie statistiche Arjuna Tuzzi, si è potuto constatare che la maggior parte dei laureati trova occupazione nel settore d’appartenenza. Di fatto, non vi sono settori o professioni riservate ai neo-laureati di questo corso, ma vi sono più di cento diversi ambiti professionali nei quali questi possono ricercare un’occupazione. Ovviamente, come in ogni materia in continua evoluzione, è utile avere delle garanzie di qualità a fianco dei riferimenti statistici.
A questo proposito in Italia, FERPI – Federazione Relazioni Pubbliche Italiana – e Assorel (le organizzazioni che raggruppano i professionisti di relazioni pubbliche e le imprese che operano nel settore) ogni anno stilano la lista dei Corsi di laurea “accreditati”, ovvero quelli che offrono percorsi di studi adeguati e coerenti sul piano delle competenze e della professionalizzazione. Le due associazioni professionali conferiscono il bollino blu ai soli corsi che superano un rigido esame. Dall’ultima analisi è emerso che solo 77 su 167 corsi triennali possiedono i requisiti di qualità richiesti, mentre sono 83 i corsi di laurea magistrale accreditati su un totale di 164. Se il Ministro Gelmini avesse la pazienza di leggere questi dati scoprirebbe che ci sono corsi di altissimo livello (e i due corsi di Padova lo sono e hanno ottenuto il bollino blu) e corsi che varrebbe la pena chiudere. Ma fare di ogni erba un fascio è inutile e danneggia la reputazione di quei corsi che operano con competenza e professionalità.
Nel gesto di puntare il dito in segno di accusa, bisogna sempre tener conto del fatto che altre tre dita sono puntate contro chi giudica. In conclusione è bene ribadire che il lavoro potenzialmente c’è e, se non c’è, la sua assenza non deriva “dall’inutilità dei corsi di Scienze della comunicazione” ma dalla cecità di imprese e istituzioni nel riconoscere e prevedere questi nuovi ruoli nei propri organigrammi. Se la precarietà post-lauream è in molti casi un dato di fatto e spinge molti giovani, di tutte le facoltà, a cercare all’estero contesti più gratificanti, urge una seria valutazione del sistema formativo italiano ed una sua più forte collaborazione con il sistema economico e produttivo. Di tutto il sistema, non solo di quello di Scienze della comunicazione.
(*) con la collaborazione di Alice Santi e Monica Savio, studentesse del Corso di laurea magistrale in “Strategie di comunicazione” dell’Università di Padova.

Si era già parlato, qualche giorno fa, delle reazioni scaturite dal commento del Ministro Gelmini nel pezzo di Giovanna Cosenza.
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