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Tasse e Relazioni pubbliche: una rivoluzione soft

11/09/2013

Nonostante l’attualità e l’urgenza dell’argomento, il rapporto tra Stato e contribuente non di frequente è oggetto di studio da parte delle Rp. Eppure i cittadini sono i pubblici per eccellenza e dovrebbero essere i principali stakeholder. La riflessione di _Gianfrancesco Rizzuti._

di Gianfrancesco Rizzuti
“La virtù è premio a se stessa”, dicevano gli antichi, ma anche – tra gli altri – Spinoza e il nostro Pomponazzi. Ogni tanto, però, la virtù va incoraggiata. Anzi, premiata.
Entriamo nel vivo: cosa pensereste se vi fosse riconosciuto un diritto come “premio” dell’esercizio di un dovere? “Questi sono matti” (disvalore sottostante, l’incredulità). Forse. Oppure: “no, grazie, chissà cosa c’è sotto” (disvalore sottostante, la sfiducia).
Ebbene, il dovere è quello di pagare le tasse, il diritto è la chance di partecipare alla distribuzione di un beneficio collegato alla transazione oggetto dell’imposizione fiscale. Sì, proprio una di quelle che ogni tanto, dicitur, (s)fuggono al fisco.
Entriamo nel vivo, scusandoci per l’approssimazione “da relatore pubblico” con la quale tratterò temi tecnico-fiscali.
Il tema è spinoso. Sotto tanti punti di vista: economici, giuridici, etici. Anche per le relazioni pubbliche. Sì, perché il rapporto Stato-Contribuente è poco studiato dalla nostra disciplina. Eppure, siamo nel vivo del sistema di relazioni dell’organizzazione per eccellenza con i pubblici influenti per definizione: senza individuare col lanternino e prioritarizzare le categorie di pubblici per lo Stato, chi c’è di più influente del cittadino, che invera il suo stato di influente proprio con il suo status di contribuente? Attraverso il prelievo fiscale permette infatti allo Stato di realizzare i suoi obiettivi: in primis sicurezza e distribuzione di servizi pubblici.
Il cittadino, tuttavia avrebbe tutte le carte in regola per essere (anche) stakeholder: al di là di una minoranza comunque disinteressata – che fa da pendant ad una certa accezione di Stato minimo – c’è una larga fetta di cittadinanza che avrebbe una gran voglia di attivarsi e interloquire con il suo ente politicamente supremo. Di superare il mero concetto di transazione, ed entrare in relazione con il “suo” Stato, di concorrere attivamente alla realizzazione di quei fini pubblici che ha solo in parte delegato alla macchina pubblica in cambio di un generico diritto ad essere (lasciato) in pace. Quello che accade, invece, è che seguendo i parametri identificati da Grunig e Ehling (1992) per misurare la qualità delle relazioni pubbliche – reciprocità; fiducia; credibilità; reciproche legittimazione, soddisfazione e comprensione; apertura; mutue soddisfazione e comprensione – la metrica della relazione Stato-cittadino fa acqua sotto tutti i profili. Al momento, lo dicono tutte le ricerche, campeggiano i loro opposti: asimmetria, sfiducia, mancanza di credibilità, insoddisfazione, incomprensione, chiusura. Dal cittadino verso lo Stato, ma anche – come dimostrano le tecniche di recupero dell’evasione – di quest’ultimo verso il cittadino.
Come reimpostare allora una nuova relazione tra Stato e cittadino? La risposta, per un relatore pubblico, è quasi banale: basterebbe che il primo mettesse in campo comportamenti e attività tali da coinvolgere in modo etico il cittadino, da renderlo engaged, da renderlo stakeholder.
Quali sono allora le leve a disposizione del “pubblico” nei confronti dei privati?
Sono soprattutto le loro attitudini e preferenze. Tra di esse, il gioco. Attenzione. Quando si tocca il gioco, si tocca un nervo sensibile: si tratta di attività che, comprensibilmente, è sotto osservazione per la dipendenza psicologica che può produrre, per le possibili contaminazioni tra l’attività lecita e quella illecita, e per il trend in continua crescita della sua industria, i cui dati ufficialmente rilevati sono – per quanto detto – certamente per difetto.
Qui però non ci riferiamo al gioco d’azzardo, tantomeno al gioco come attività fine a se stessa. Ci riferiamo piuttosto ad una rivoluzione culturale soft che rende anche una prestazione obbligata, come quella tributaria, meno sgradita.
Si tratta – nonostante alcune felici eccezioni che cominciano a diffondersi specie a livello locale, dove evidentemente le elasticità delle amministrazioni sono più praticabili – di un atteggiamento molto poco diffuso nei rapporti Stato-contribuente, invero caratterizzati dall’essere criminogeni e repressivi. Sebbene la storia – oltre che il buon senso – dimostrino che in un sistema aperto chi tende a violarlo ha sempre un “colpo in canna in più” rispetto a colui che è chiamato a difenderlo. E’ come guardare due squadre di calcio: una in 11 perennemente all’attacco, l’altra in 4, senza portiere e costretta alla difesa non potendo superare la metà campo. Prima o poi, i quattro un goal lo beccheranno, a meno che non siano i supereroi… E non solo. Ogni ipotesi di riforma si fonda sull’introduzione del contrasto di interessi tra i protagonisti della transazione economica: il consumatore verrebbe posto nelle condizioni di avere convenienza ad esigere il documento fiscale da parte di chi sarebbe chiamato, per legge, ad emetterlo. Ma come trovare un punto di equilibrio che scoraggi comportamenti collusivi? E non si esaspera la diffidenza tra categorie che pretendono, ognuna, di avere ragione?
La proposta che qui facciamo invece si basa su concetti opposti: l’imposta va pagata perché è dovuta, ma anche perché può avere una “ricompensa”, convenire e addirittura divertire. In che modo? Costruendo una relazione col contribuente per effetto delle transazioni, non colpevolizzandolo iuris et de jure e neanche juris tantum; non mettendolo – a livello orizzontale – in contrasto di interesse col suo vicino di casa, né – a livello verticale – in posizione di sudditanza rispetto all’ente esattore, addirittura presumendo un comportamento illecito salvo prova contraria.
In un sistema aperto, la relazione va invece resa più equilibrata. L’ex ministro Padoa Schioppa fu criticato per aver detto che pagare le tasse è bello. Se non è bello, può però essere non vessatorio e addirittura accettabile. Ma a tre condizioni. Una, di scopo: vedere il ricavato della propria imposta ben spesa (con il principio federalista, ciò è indubbiamente più tangibile); la seconda di equità tra contribuenti, così che tutti concorrano in ragione della loro capacità contributiva (art. 53 della Costituzione italiana); la terza, di modalità: pagare l’imposta dà un immediato diritto ad una quota di possibile beneficio personale e tangibile. Se lo Stato o l’ente pubblico rinunciasse ad una frazione di gettito fiscale (al momento circa un quarto del gettito teorico sfugge agli accertamenti), potrebbe dedicarla ad un “montepremi” da destinare come ricompensa ai contribuenti onesti. Che verrebbero premiati, per effetto della transazione finalmente “alla luce del sole” non per il timore del controllo fuori dal ristorante, ma per l’aspettativa di una “ricompensa” collegata all’emissione di quello scontrino, di una ricevuta, etc. e che potrebbe avere differente contenuto. Il più banale, ma più “controverso”, una vincita di denaro tout court; ma si potrebbe pensare ad un bonus fiscale, ad un voucher istruzione per le famiglie. Insomma, ad un risultato concreto a favore tanto di chi emette il documento fiscale (che ad oggi è un criminale lombrosiano), quanto di chi lo riceve (ad oggi, poco incentivato a pretenderlo). Col che si passerebbe ad una composizione di interessi tra soggetti che al momento o si guardano in cagnesco, anche per effetto di una retorica bellicosa tra lavoratori dipendenti e autonomi, o cercano sottobraccio un punto di equilibrio sulle reciproche convenienze derivanti dalla non emissione del documento fiscale.
Presupposto quantitativo sarebbe la rinuncia ex ante da parte dello Stato ad una frazione di gettito teorico. Si prenderebbe atto che una percentuale di evasione è ineliminabile, senza fare proiezioni di contabilità su gettiti potenziali. E si punterebbe a recuperare la percentuale eccedente l’evasione “naturale” – che non dimentichiamo esiste in tutti i Paesi, anche i più civili – attraverso un’imposizione più attenta al contribuente, una sorta di “smart tax”. Innescando un moltiplicatore di reddito disponibile e – volendo – rendendo la politica fiscale elemento di una politica industriale ed economica che individua le priorità e le persegue anche con meccanismi innovativi che valorizzino i comportamenti virtuosi dal punto di vista civico.
Se si vuole puntare alla formazione, per esempio, perché non utilizzare la leva delle smart tax per defiscalizzare le spese dell’istruzione di alto livello? Dove smart sta sia per intelligente (nell’inglese statunitense) che elegante (per i britannici): un modo davvero intelligente ed elegante di impostare una nuova relazione stato-contribuente, singolo o impresa. Contaminazione tra etica ed estetica, con una nuova, dinamica e più equilibrata visione del concetto di cittadinanza. Proprio quello che ci vuole in questo periodo di cattive brutture. Anche nelle relazioni pubbliche.
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