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Tre riflessioni sul caso Taranto

03/09/2012

Il caso Ilva continua ad essere presente sui media. Ma, al di là delle questioni giudiziarie, l’aspetto relativo alla comunicazione risulta fondamentale. _Roberto Antonucci_ suggerisce tre spunti di riflessione.

di Roberto Antonucci
Al di là della verità storica e di quella processuale che si formeranno nelle sedi naturali il caso Taranto, per quanto riportato dai media e se analizzato come caso d’aula, consente almeno tre considerazioni.
1. Quella che si sta consumando è forse l’ultima esternazione di uno stile imprenditoriale che – come in una capsula del tempo – è arrivato immutato dagli anni ’50 sino ad oggi. La domanda su come possano accadere simili eventi potrebbe trovare una risposta, tra le molte possibili, anche nell’insufficiente impiego di quelle leve di governo e quindi anche di comunicazione che vengono comunemente utilizzate dalle imprese. Se fosse questo lo scenario, si comprenderebbe meglio a quale scuola sarebbero ascrivibili le parole del giovane manager intercettato “… facciamo un comunicato stampa fuorviante tanto per vendere fumo, dicendo che tutto va bene e che l’azienda collabora con la regione…” (v. Panorama n.36). La chiave di volta della questione starebbe allora nella differenza che passa tra un modello imprenditoriale in cui la proprietà gestisce in prima persona nella convinzione che produrre comporta inevitabilmente l’inquinare rispetto ad un altro modello oggi largamente più diffuso in cui dei manager gestiscono innanzitutto sapendo produrre nel rispetto delle norme creando così valore per gli azionisti.
2. Ai tempi di Mani pulite il vertice di un’azienda indagato dalla magistratura veniva talvolta sostituito da personaggi con solide storie professionali e indiscussa reputazione personale, in attesa della conclusione dei processi. Una soluzione che equivaleva a dire che era stata fatta forse qualche fesseria ma che ora a gestire c’era Tizio che era una persona perbene (anche se non ne sapeva nulla di quel settore e, dunque, doveva prendere per oro colato tutto ciò che l’azienda gli diceva). Oggi queste soluzioni appaiono un po’ fané perché non esprimono – se non solo formalmente – la discontinuità di cui le aziende in questione hanno estremo bisogno rispetto al loro recente passato e perché non danno quei segnali tangibili utili all’interno dell’impresa ma anche all’opinione pubblica.
3. Altro tormentone sono poi gli impegni solenni che talvolta le aziende annunciano ai media circa gli investimenti che promettono di fare al proprio interno. Spesso si tratta di cifre rilevanti ma di cui pochi o nessuno di solito conosceranno poi i particolari o vedranno le pezze giustificative. I comunicatori d’impresa dovrebbero assicurarsi che queste cifre siano corrette, documentate, disponibili per essere fornite ai media.
Quali soluzioni d’aula? Se ne esistono, passano probabilmente attraverso profondi e coraggiosi segni di discontinuità con il passato attuati da proprietà che dimostrino di avere visioni etiche del proprio futuro, magari mediante: un coraggioso passo indietro della proprietà da ogni forma di gestione diretta, un significativo ricambio del vecchio management, l’ingresso di manager qualificati con esperienze internazionali, investimenti appropriati per rientrare negli standard ambientali. A queste ed altre soluzioni si aggiungerebbero gli inevitabili interventi finanziari pubblici garantiti tuttavia da asset aziendali. Come i tempi che viviamo imporrebbero.
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