Cina: il nuovo corso della comunicazione
18/04/2012
L’opinione pubblica continua a rappresentare una “bestia nera” per il governo cinese ma paiono esserci segnali di apertura verso un dialogo con i media. I sistemi di controllo dell’informazione di un tempo non sono più efficaci nell’era di Internet. Ma si tratta di reale desiderio di imparare o di un assorbimento selettivo di idee e metodi? L’opinione di _Alessandra Colarizi._
di Alessandra Colarizi
Oltre 450 mila caratteri di puro indottrinamento; il vademecum per i quadri del Partito Comunista Cinese vide la luce nell’aprile 2010 e fu subito un grande successo. L’arte di guidare l’opinione pubblica, questo il titolo del “manuale del buon funzionario”, reca una firma di tutto rispetto: Ren Xianliang, vice direttore del dipartimento di Propaganda della provincia dello Shaanxi, vice presidente dell’Associazione dei Giornalisti cinesi ed ex penna della Xinhua, l’agenzia di stampa statale che fornisce almeno un quarto delle informazioni riportate dai gruppi editoriali nazionali.
Dopo circa sei mesi l’opera era già alla sua quinta edizione; con un centinaio di copie ordinate soltanto dalla nomenklatura del partito e vendite cinque volte superiori alle aspettative. In un distillato di massime assolutamente rivoluzionarie per la grande dittatura cinese, Ren spiega come cavalcare la bestia nera dell’opinione pubblica senza bisogno di utilizzare la frusta, soltanto grazie al dialogo con i media.
“Anche se i media sono controllati dal Partito, non bisogna impartire lezione ai giornalisti, né essere loro ostili perché non sono tuoi nemici, sono tuoi alleati”. La sentenza la dice lunga su quali siano gli intenti del suo autore, il quale ci tiene a precisare come stampa e governo siano accomunati dai medesimi obiettivi. Nel tentativo di tracciare una linea più marcata tra giornalismo e propaganda, tradizionalmente fumosa entro i confine della Repubblica Popolare, Ren tuttavia non esita nemmeno a mettere in guardia i suoi lettori (leggi: funzionari) verso le insidie della stampa, fornendo utili consigli su come smarcarsi agilmente dalle domande più scomode.
In altre parole, L’arte del guidare l’opinione pubblica ha lo scopo di dettare alcune linee guida indispensabili per la formazione di un pool di professionisti della comunicazione, istruendo gli uomini di Pechino su come trattare con i media, dopo anni di rapporti tutt’altro che idilliaci.
Tutto ebbe inizio il 20 giugno del 2008. Poco prima dell’inizio delle Olimpiadi di Pechino, il presidente Hu Jintao chiamò agli ordini il Ministero della Verità (termine con il quale è stato ribattezzato dal web l’ufficio della Propaganda) per modificare la strategia di difesa contro il “pericolo informazione”. Abbandonata la repressione ad ogni costo (esplicata nel motto “guidare l’opinione pubblica”), voluta dal precedente timoniere Jiang Zemin alla luce delle proteste studentesche di piazza Tiananmen, la nuova formula dello yulun yindao, “incanalare l’opinione pubblica”, consiste in un abile lavoro di makeup volto a modellare le notizie in modo da guidarle in una direzione vantaggiosa per il Partito. E il disastro mediatico seguito alle rivolte tibetane del marzo 2008, con il conseguente deterioramento delle relazioni internazionali del Dragone, rappresenterebbe, secondo molti, lo scoglio che ha indotto Pechino ad effettuare la grande virata.
Ma che la si voglia chiamare yulun yindao, “incanalare l’opinione pubblica” o “Controllo 2.0” (con particolare riferimento alla morsa esercitata su Internet), la nuova politica ammorbidita di Zhongnanhai – il quartier generale del Partito – è ben lungi dall’essere un sentito mea culpa, mentre la stretta sull’informazione continua ad intermittenza a seconda delle agende politiche o di come spira il vento: gli ultimi scandali politici innescati dal “caso Wang Lijun” e da un’ipotesi golpe sono stati accolti dalla leadership nel silenzio più totale. Nessuna spiegazione ufficiale, ma la necessità di mettere fine alle congetture della rete ha portato all’arresto di almeno 6 persone, alla chiusura di circa una quarantina di siti web, nonché alla rimozione di oltre 210 mila post dalla metà di marzo ad oggi.
“Trasformare le tragedie in trionfi” – aveva scritto il Southern Weekend a ridosso dell’uscita del bestseller di Ren – rischia di diventare l’ennesimo espediente volto a mascherare la realtà, nascondendo sotto il tappeto le notizie sgradite. Di fatto è cambiato il nome ma non la sostanza: che si parli del “guidare” di Jiang Zemin o dell’ “incanalare” di Hu Jintao, il controllo sull’infosfera rimane una priorità alla quale il Partito sembra non essere disposto a rinunciare.
Ma se il giornale della mattina continua ad essere il megafono del Partito, quello serale, i supplementi e la stampa metropolitana, quali il Nanfang Zhoumo e il Nanfang Dushibao, riescono a portare alla luce gli scheletri nell’armadio di Pechino, denunciando casi di corruzione, scandali e abusi di quadri.
La dottrina della “stabilità del silenzio” post Tiananmen comincia a mostrare i suoi punti deboli, soprattutto a causa della rapida diffusione delle notizie via web, principale alleato dell’opinione pubblica e araldo del nascente movimento per la difesa dei diritti civili (weiquan yundong).
Qualcosa nel sistema non va e qualcuno se ne è accorto da tempo. L’11 ottobre 2010 alcuni veterani del Partito quali Du Daozheng, redattore della rivista liberale Yanhuang Chunqiu ed ex direttore dell’Amministrazione generale della stampa e dell’editoria, Li Rui, ex segretario di Mao Zedong, Hu Jiwei, ex direttore del Quotidiano del Popolo, Li Pu, ex vicedirettore della Xinhua e Yu You, ex redattore capo del China Daily, firmarono una lettera indirizzata al Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo nella quale, appellandosi all’articolo 35 della Costituzione, richiedevano l’abolizione della censura su internet, la libera circolazione nella mainland di libri e periodici provenienti da Hong Kong e Macao nonché la riabilitazione dei “non detti” della storia, con conseguente ammissione degli errori commessi dal Partito.
Se la strategia del bavaglio ha confermato la sua inefficienza, i piani alti del potere cominciano ad interrogarsi seriamente su possibili valide alternative. E questa volta la risposta è ad ovest.
Lo scorso settembre la prestigiosa università di Pechino Tsinghua, nota per aver formato importanti leader, tra i quali lo stesso Hu Jintao, ha organizzato un corso di crisis management e crisis communication invitando dall’estero professori ed esperti.
Il progetto finanziato dall’International Distinguished Scholars Program ha attirato dietro i banchi di scuola dottorandi, businessmen, funzionari governativi e professionisti dell’informazione.
Helio Fred Garcia, docente alla New York University e al Swiss Federal Institute of Technology di Zurigo, nonché presidente del Logos Consulting Group di New York ha accolto con vivo stupore la partecipazione dinamica dimostrata in primis dai quadri del Partito.
“Sembravano veramente voler padroneggiare il processo di crisis management. Uno dei miei temi centrali è stato quello della necessità di prendere sul serio le aspettative degli stakeholder, per mantenere la fiducia facendo la cosa giusta al momento giusto” – ha scritto Garcia sul blog del Logos Institute – “Mi aspettavo che il governo avesse di default il desiderio di controllare le informazioni. E invece non ho visto nulla di tutto ciò. Sembravano veramente curiosi di sapere come vincere, mantenere e costruire la fiducia, il sostegno e l’approvazione pubblica.”
Sollecitato dal suo uditorio, Garcia ha poi trattato la questione dei social media, spiegando come la Us Food and Drug Administration utilizzi dieci account Twitter differenti, Youtube, Flickr e vari blog. “Mi aspettavo risposte del tipo ‘qua non lo possiamo fare’ e invece mi sono sentito domandare ‘come possiamo metterlo in pratica anche qua?’”
All’ammissione diretta dell’incapacità di controllare l’opinione pubblica di alcuni ha fatto seguito il sincero desiderio di imparare i segreti del mestiere per stare al passo con una caleidoscopica società in rapida trasformazione. Ciò che andava bene un tempo ora necessita di una robusta manutenzione, sembrano pensare i leader della Nuova Cina. Eppure rimane sempre il sospetto che la viva curiosità del Dragone possa sfociare in un assorbimento selettivo di idee e metodologie, dando vita ad una versione per così dire “con caratteristiche cinesi”.