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Comunicare non è inventare nuove parole

01/02/2010

Il lavoro del comunicatore non è inventare nuove parole ma cambiare il modo di leggerle. Non basta cambiare nome perché un vulcano o un terremoto perdano la loro potenza distruttrice. Sergio Zicari illustra in questo interessante articolo alcuni dei più diffusi esempi degli ultimi anni. Perché se, come sostenevano i latini, _nomina sunt consequentia rerum_.

di Sergio Zicari
L’uso delle parole, si sa, cambia con il tempo. Non è solo questione di evoluzione di una lingua per seguire il progresso scientifico. Nessuno sentiva il bisogno di inventare il vocabolo “aeroplano” finché qualcuno non si mise a costruire quelle che, inizialmente, venivano chiamate “macchine volanti”. Fino a una decina d’anni fa la parola “telefonino” era un vezzeggiativo, un diminutivo per indicare un “piccolo telefono”, cioè un giocattolo per bambini o un soprammobile. Oggi identifica quel mezzo di comunicazione di messaggi (parlati o scritti) e di sé (status symbol), che hanno anche i bambini di dieci anni.
L’evoluzione di una lingua ha anche motivazioni sociali. Quando cambiano i modi di rapportarsi tra le persone avviene un cambiamento in quello che chiamiamo “registro”. Negli anni Trenta si usava il “voi”, negli anni Cinquanta il “lei”, ora sembra che sia l’epoca dell’egualitario “tu”. Chi usa più espressioni come “Voglia ella farsi interprete…” ?
Un altro motivo di cambiamento in una lingua è l’influenza di termini stranieri. Diciamo infatti che il latino è una lingua morta, mentre l’italiano è una lingua viva. Pensiamo a parole come ticket, shopping, fitness, pass, ecc. entrate nel linguaggio comune.
Ma qui vogliamo attirare l’attenzione su un tipo particolare di evoluzione: quella dei vocaboli che si riferiscono a persone o mestieri poco apprezzati socialmente o oggetto di imbarazzo o di derisione.
Uno di questi è “spazzino”, ovvero colui che provvedeva alla raccolta delle nostre immondizie per portarle alle discariche pubbliche. Si chiamava così perché, appunto, “spazzava” via (eliminava) i rifiuti domestici. Se si chiedeva a un bambino quale fosse il mestiere di suo padre, lo diceva ad alta voce se questi faceva l’impiegato, il medico, il commerciante; lo diceva a mezza voce se faceva l’operaio; diventava rosso dall’imbarazzo, se non dalla vergogna, se faceva lo spazzino. E non era diverso se la domanda veniva fatta alla moglie o al diretto interessato.
Se una giovane donna presentava al padre il suo innamorato e questi di mestiere faceva lo spazzino, sapeva già che il genitore non avrebbe molto approvato la sua scelta.
Come hanno pensato i nostri comunicatori di risolvere questa imbarazzante situazione? Semplicissimo. Hanno inventato un nuovo nome: “netturbino”. Fu un successo… all’inizio. Dire “netturbino” dava l’idea di un mestiere importante, visto che pochi sapevano cosa volesse dire. E anche se al nome si faceva seguire una spiegazione, il termine sembrava già più elevato di “spazzino”. Ma, col tempo, la nuova parola è andata pienamente a sostituirsi alla precedente sino ad assumerne la stessa scarsa valenza sociale. Si era così al punto di partenza.
Cosa fare? Ecco i nostri bravi comunicatori industriarsi a coniare un nuove termine. E fu così che venne alla luce il fantastico “operatore ecologico”. Un’idea geniale, perché il semplice raddoppio di parole necessarie faceva sembrare doppiamente importante la relativa professione. Inoltre l’abbinamento di un sostantivo con un aggettivo suggeriva l’appartenenza ad una categoria più vasta, quella generale degli “operatori” (operatore commerciale, operatore sanitario, ecc.). Inoltre lo specifico aggettivo si sposava con la crescente sensibilità ambientalista del pubblico in genere. Al momento questo nome suona bene, ma quanto tempo ci vorrà perché riassorba in sé tutte le valenze negative dei precedenti “netturbino” e “spazzino”? Appena la gente accompagnerà la parola “operatore ecologico” all’immagine di “colui che raccoglie i rifiuti”, saremo tornati al punti di partenza.
Non solo. C’è da notare che, a mano a mano, che il termine si “elevava”, scemava il livello di servizio reso. Infatti, mentre lo “spazzino” raccoglieva le immondizie nel suo carretto (a pedali un tempo, poi motorizzato) e raccoglieva anche i sacchetti posti fuori dai contenitori e lo sporco eventualmente caduto per terra, oggi l’ “operatore ecologico” passa con il camion, svuota automaticamente il cassonetto, ma lascia dove si trova tutto ciò che eventualmente dovesse essere finito per terra durante tale operazione, come tutto ciò che incivili o distratti cittadini hanno depositato o fatto cadere fuori dai cassonetti. Quindi lo “spazzino” lavorava meglio dell’ “operatore ecologico”. Il risultato è che ora quelle che chiamiamo pomposamente “isole ecologiche” (una volta dette “angolo dei cassonetti”) non sono altro che maleodoranti, antigienici e rivoltanti accumuli di sporcizia.
Ma passiamo a un altro esempio. Coloro che tra noi, per nascita, infortunio o malattia erano colpiti da qualche disgrazia invalidante, venivano chiamati “minorati”. Ma dire di qualcuno che era un “minorato mentale” o un “minorato fisico” suonava negativamente alle orecchie di troppe persone. Molte, infatti, accompagnavano questo termine con atteggiamenti negativi, quali imbarazzo, disprezzo, compatimento, e così via.
Di nuovo, solerti comunicatori hanno identificato la soluzione del problema (tale sia per chi era colpito da simili limitazioni, sia per le cosiddette persone “normali”) sostituendo a “minorato” la parola “handicappato”. Un’idea vista da molti come geniale perché si è pensato che prendendo un vocabolo straniero e italianizzandolo per indicare, ad esempio, uno storpio come handicappato, avrebbe superato ogni imbarazzo dall’una come dall’altra parte.
Anche qui è stato un successo iniziale. Nemmeno i giornali avevano alcuna remora a usare questo termine persino nei titoli dei loro articoli. Ma presto il termine ha assunto la stessa valenza del vecchio nome, cosa questa che ha richiesto l’invenzione di un nuovo termine. Siamo così passati a “portatore di handicap”. Pure questa è sembrata una pietra miliare, una soluzione definitiva. Sì, perché mentre “handicappato”, essendo un aggettivo sostantivato, faceva coincidere il problema con la persona, ora si scindevano le due cose: la persona è definita “portatore” (siamo tutti portatori di qualcosa, se non altro di buone o cattive notizie…), di che cosa? Di un handicap, cioè di qualcosa a lui esterna.
Un uovo iniziale successo. Ma col tempo (non molto in verità) la reazione delle persone direttamente coinvolte e degli altri è tornata a essere quella di prima: nessun cambiamento di vocabolo può modificare in alcuna maniera qualsivoglia situazione. Altro balzo inventivo e i comunicatori hanno ora coniato il termine ”diversamente abile”. Non sappiamo quanto lunga sarà la vita di questo termine così “carino”, ma così privo di un vero significato data la sua assoluta genericità. Non siamo forse tutti “diversamente abili” gli uni dagli altri? E quale diversa “abilità” ha quell’infelice il cui cervello non gli permette alcuna forma di pensiero?
Cosa vuol dire tutto questo? Che anche in questo caso è stata scelta la via più facile, ma anche quella meno efficace.
Coloro che, quando vedono qualcuno con delle limitazioni lo guardano o gli si rivolgono con disprezzo o superiorità o si girano dall’altra parte o lo deridono, lo faranno anche se potessimo cambiare ogni giorno nome alle malattie o alla malformazioni. Possiamo dire “cieco” o “non vedente”, “sordo” o “non udente”, “mongoloide” o “down” con estrema gentilezza, simpatia, comprensione e sensibilità o con supremo sprezzo e scherno. Serve a poco, sui mezzi pubblici di trasporto, sostituire la targhetta “posto riservato agli anziani e agli handicappati” con “posto per passeggero con ridotta capacità motoria” quando poi non ci si preoccupa di educare le menti. Non sono le parole a fare la differenza, ma i pensieri e i sentimenti che abbiamo dentro di noi.
È qui che può fare la differenza la vera comunicazione con la sua capacità di informazione e di educazione. I veri comunicatori non sono tali perché sono bravi a parlare, ma perché capaci di far riflettere e di far comprendere le cose.
Invece di cambiare nome agli “spazzini” non sarebbe stato meglio che le Aziende incaricate della raccolta dei rifiuti facessero una campagna per “comunicare” l’immensa utilità del loro lavoro, facendo capire ai cittadini che senza l’opera degli spazzini la nostra vita sarebbe in pericolo e le nostre città invivibili? Comunicare questo avrebbe reso gli spazzini (e le loro mogli, i loro figli) fieri di essere tali.
Pensiamo ai vigili urbani. Nessuno di noi li ama, vero? Non sono forse loro quelli che ci mettono le multe quando lasciamo l’auto in sosta vietata, attraversiamo imprudentemente un incrocio all’arancione, non ci fermiamo allo stop? Invece di preoccuparsi ogni tanto di cambiare il loro nome (“vigili urbani”, poi “polizia municipale”, quindi “polizia locale”) non sarebbe stato più lungimirante, da parte delle varie Municipalità, spendere qualche soldo per comunicare alla cittadinanza il servizio che rendono a tutti noi? Non è forse grazie a loro che possiamo attraversare con maggiore sicurezza le nostre strade, abbiamo meno paura di attraversare con il verde, c’è un po’ più di tutela nelle nostre città?
Comunicazione è far capire, non inventare nuove parole.
Comunicare correttamente
“A chi giova l’uso di un linguaggio forbito se non è compreso da chi ascolta? Che motivo ci sarebbe di parlare se ciò che diciamo non viene compreso proprio da quelli ai quali parliamo, affinché capiscano ciò che diciamo?
Chi vuole insegnare, deve evitare tutte quelle parole che non raggiungono questo scopo; e se al posto di quelle può usare parole egualmente corrette deve preferire queste ultime, se poi non può, perché non ve ne sono e perché non gli vengono in mente, potrà usare parole meno corrette, purché l’oggetto
del suo discorso sia comunicato e appreso nel suo complesso”. (Sant’Agostino)
“Anche se come professionisti delle relazioni pubbliche — ha affermato Larissa Grunig nel corso del World Public Relation Festival 2005 — non possiamo aspettarci di far crescere l’umana conoscenza, noi possiamo e dobbiamo compiere la nostra missione: promuovere la comprensione umana”.
(G. Vecchiato, Relazioni Pubbliche: l’etica e le nuove aree professionali)
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