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"Fidanzarsi" con i portatori d'interesse?

29/11/2012

Lo _stakeholder engagement_ sembra essere diventato la parola d'ordine delle organizzazioni, almeno nel mondo anglosassone. Ma la condizione di stakeholder implica, per sua natura, la consapevolezza e l'interesse al confronto. Come in un percorso di coppia però il coinvolgimento deve venire prima del "fidanzamento". L'analisi di _Toni Muzi Falconi._

di Toni Muzi Falconi
Il nuovo mantra anglosassone nelle organizzazioni è lo stakeholder engagement. Non esiste impresa, amministrazione pubblica o associazione no-profit i cui dirigenti non si pongano l’obiettivo di avviare un dialogo intenso con gli stakeholder (portatori di interesse). Del resto, per raggiungere i suoi obiettivi ogni organizzazione non può non considerare l’influenza dei sempre più numerosi soggetti che hanno il potere di ritardarne o accelerarne le rispettive dinamiche di attuazione.
Ora, dopo i relatori pubblici, anche i consulenti di direzione, gli esperti di responsabilità sociale, i commercialisti e gli avvocati propongono ai loro clienti/datori di lavoro percorsi professionali per andare in quella direzione e governare con maggiore efficacia i sistemi di relazione che si sviluppano nella vita organizzativa e sociale. Proviamo a fare un po’ di chiarezza? Essere stakeholder (to hold a stake) implica per il singolo soggetto essere consapevole e interessato al confronto. E’ lo stakeholder, quindi, a decidere di essere tale, e non è l’organizzazione a sceglierlo. Un dirigente, un dipendente, un sindacalista, un fornitore, un azionista, un analista finanziario, un regolatore, un giornalista, un cliente/utente, un volontario…, purché ritenga di essere consapevole degli obiettivi che l’organizzazione persegue e interessato ad ostacolarli oppure a facilitarli, è uno stakeholder.
A sua volta, l’organizzazione ha, in molti casi, la possibilità di scegliersi gli interlocutori con i quali vuole confrontarsi…ma lo fa a suo rischio e pericolo. Quindi, così come l’organizzazione non può scegliersi gli stakeholder che si lasciano coinvolgere, può però selezionare gli interlocutori con i quali preferisce fidanzarsi. Nella lingua inglese, in un normale percorso di coppia, viene prima l’involvement (coinvolgimento) e poi l’engagement (il fidanzamento). Non sembri questione nominalistica: dal punto di vista dell’economia della comunicazione, la distinzione è essenziale. Infatti: se l’organizzazione mette a disposizione dei suoi stakeholder un accesso facilitato – segmentato per interesse, per canale – alla rendicontazione continua dei propri comportamenti, azioni, decisioni e comunicazioni, offrendo e incentivando anche possibilità di dialogo, avvia un percorso di coinvolgimento.
E’ già un passaggio impegnativo, ma che dà per scontato che lo stakeholder sia almeno parzialmente consapevole e comunque interessato a saperne di più e farsi coinvolgere. La conseguenza è che l’organizzazione non dovrà sforzarsi tanto per attirare l’attenzione dello stakeholder (che rappresenta la parte normalmente più onerosa del processo comunicativo). Naturalmente i canali e i contenuti di questo coinvolgimento cambiano in funzione dei diversi interessi delle parti, ma in linea generale sono relativamente poco onerosi. La fase successiva, quella invece del vero e proprio fidanzamento, è assai più impegnativa e spetterà questa volta all’organizzazione – anche in base alla qualità e alla intensità del riscontro ottenuto nel coinvolgimento – decidere con quali gruppi di stakeholder proporre un vero e proprio fidanzamento, assai più impegnativo e oneroso sia in termini di risorse/tempo che in termini di risorse/eventi/canali/strumenti/eventi di dialogo, confronto, scontro, negoziato… con gli stakeholder selezionati.
Il processo di rendicontazione comprende ovviamente l’ascolto professionale dello stakeholder in merito alle sue aspettative. Questo però non comporta necessariamente che l’organizzazione si faccia tappetino rosso rispetto alle aspettative rilevate, ma che ne tenga conto nel decidere gli ulteriori passi attuativi verso il singolo obiettivo perseguito, sì. In molti casi può succedere che l’ascolto si limiti semplicemente a prendere atto che tutto va bene, oppure che i cambiamenti desiderati siano troppo impegnativi perché l’organizzazione li possa attuare senza compromettere i propri equilibri.
Nel primo caso, se lo vorrà (ma è l’organizzazione a deciderlo) potrà rischiare l’innovazione e operare affinché le conseguenze non producano negli stakeholder resistenze incompatibili. Nel secondo caso, sempre l’organizzazione potrà sempre decidere di compromettere i propri equilibri ma dovrà sforzarsi di contenere le resistenze attese degli stakeholder. Sbaglia di grosso chiunque pensi che i processi comunicativi, che sono alla base del governo dei diversi sistemi di relazione nei quale operiamo, siano competenza da affidare ai comunicatori professionisti senza rendere l’organizzazione stessa integralmente comunicativa.
Fonte: Huffington Post
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