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Il people raising “soft” nel web 2.0

15/01/2009

Reclutamento di volontari che alimentano il passaparola e promuovono un messaggio “mettendoci la faccia”, garantendo visibilità e credibilità all’azione di comunicazione sociale o politica. Una nota interessante spiega la modalità di coinvolgimento "morbida" nel web 2.0.

di Paolo Antonio Pappalardo


Ormai lo sappiamo bene: il web 2.0 è il web dei contenuti generati dagli utenti, quello di Youtube, di Myspace, di Facebook, dei blog e molto altro. Su internet il diritto di pubblicare informazioni è distribuito “orizzontalmente” a tutti: a chi possiede una rete televisiva come a chi ha soltanto un telecomando; al giornalista come al salumiere. Il navigante 2.0 è UPA (User/Author/Publisher). Ognuno diventa autore, editore, broadcaster di se stesso; e ha a disposizione dei potentissimi mezzi per promuovere le sue idee.


Spesso le idee non sono proprio sue. L’utente/autore/editore può sposare la causa di qualcun’altro (ad esempio un messaggio sociale, una protesta, una candidatura politica) e diventarne “evangelista” nel web attraverso gli strumenti di cui, quelli citati sopra, sono solo una parte.


Molte organizzazioni no-profit e diversi politici (Obama ne è l’esempio più famoso) hanno deciso di reclutare volontari nel web. Ma volontari per far cosa? Per sostenere e diffondere il loro messaggio. Un esercito di piccoli e grandi opinion leader, personaggi famosi ma soprattutto “ragazzi della porta accanto e casalinghe di Voghera col profilo Facebook”: persone comuni, che studiano, lavorano e comunicano non al grande pubblico ma a qualche decina di amici, parenti e conoscenti. Testimonial non pagati e, per questo, molto più attendibili e influenti.


Certo, siamo abituati a immaginare i volontari come delle crocerossine che cambiano la flebo ai feriti di guerra. Per questo è giusto distinguere tra “soft” e “hard” people raising, intendendo quest’ultimo proprio come il reclutamento di volontari disposti a rimboccarsi le maniche: non solo infermiere al fronte, ma anche volantinisti, predicatori porta a porta, raccoglitori di firme e venditori di azalee per finanziare la ricerca contro il cancro.
Il people raising “morbido”, invece, è il reclutamento di volontari che alimentino il passaparola e promuovano il messaggio di una no-profit o di un politico “mettendoci la faccia”. Dei veri e propri testimonial, come ho già detto. Tutto ciò che devono fare è garantire visibilità e credibilità all’azione di comunicazione sociale o politica che sia.


Per fare qualche esempio: l’organizzazione “Missioni Don Bosco” ha aperto un gruppo su Facebook per invitare a donare un video virale. La richiesta mi è sembrata subito un pò vaga ma, dopo essermi iscritto al gruppo, ho trovato le istruzioni su come fare: basta sfruttare una nuova funzione di Youtube grazie alla quale compaiono delle scritte sui nostri video, in sovraimpressione, come si diceva una volta. Le Missioni Don Bosco ci chiedono di far comparire nei nostri clip una frase solidale con la loro causa e il link al loro spot per le donazioni. E così, guardando diverse centinaia di video su Youtube, vedrete un banner che vi invita a guardare un altro video: lo spot appunto.


Chiamereste questo people raising? Si, lo è. Certo non ci viene chiesto di andare a costruire scuole in Somalia. Ci chiedono semplicemente di aggiungere una frase a un nostro video (magari visto solo dagli amici). Eppure stiamo collaborando: sostieniamo apertamente l’iniziativa, invitiamo gli altri a guardare lo spot e li incoraggiamo a donare anch’essi un video. Magari pure qualche euro.


Barack Obama è diventato presidente degli USA anche grazie ai tanti blogger, Youtuber, Myspacer, Facebooker che hanno apertamente dichiarato la loro simpatia verso di lui. Lo staff di Obama ha fatto tanto affinchè questo avvenisse, influenzando le conversazioni in rete molto meglio di quanto non abbia fatto lo staff di Mc Cain.
Oggi, in Italia, Renato Soru (candidato democratico alla presidenza della Sardegna) prova a seguire le orme di Obama. Su Facebook la sua pagina è visitatissima, esistono diversi gruppi di sostenitori e questi possono mostrare le loro intenzioni di voto a tutti gli amici anche grazie ad un’applicazione, realizzata ad hoc, che si chiama “Meglio Soru” e si installa nel proprio profilo.


Si potrebbe parlare di web people raising anzichè di soft people raising? Direi di no. Il primo è iperonimo – contenitore – del secondo. Sempre Renato Soru, ad esempio, usa Facebook anche per l’hard people raising: cerca persone disposte a organizzare comizi, a tenere aperti i circoli, a raccogliere fondi, ecc. Quindi, il web people raising può essere sia soft che hard.


Il soft people raising è possibile solo su internet? Diciamo che il web, il web 2.0 in particolare, agevola molto queste dinamiche. Tuttavia esistevano già diversi anni fa degli esempi di soft people raising offline. Basti pensare a quando Ligabue, Jovanotti e Piero Pelù cantavano “Il Mio Nome È Mai Più” per raccogliere fondi destinati a Emergency: il logo dell’associazione di Gino Strada divenne la T-shirt di migliaia di giovani, l’adesivo sui loro scooter e la spilletta attaccata ai loro zaini. La E di Emergency divenne simbolo della pace in Afghanistan e poteva contare su tanti sostenitori che influenzavano altri sostenitori che, a loro volta, ne contagiavano altri in un catena potenzialmente infinita. Va ricordato, infatti, che il soft people raising produce effetti virali.


Quella brillante campagna, che riuscì a dare grande visibilità a Emergency, prima di allora poco conosciuta, fa sentire ancora oggi la sua eco nel web: diversi blogger espongono orgogliosamente il banner e, su MySpace, molti utenti hanno il logo con la E nella Top Friends (cioè la lista dei migliori amici che appare nella loro pagina).


Ma il soft people raising produce spesso dei risultati di hard people raising. In altre parole, chi si lascia coinvolgere in maniera “morbida” finisce spesso per affezionarsi alla causa tanto da volersi dar da fare in maniera più “dura”.


La riforma Gelmini è entrata nella storia della comunicazione come il momento della prima protesta del movimento studentesco italiano organizzata sul web. Chi si è lasciato coinvolgere dal fermento in internet, ha deciso anche di partecipare alle assemblee, alle occupazioni, ai cortei. I banner sono diventati striscioni. I commenti sui siti sono diventati gli slogan al megafono. I blog dei collettivi informavano su ciò che succedeva nelle scuole. L’appuntamento in piazza veniva dato su facebook agli iscritti ai vari gruppi anti-Gelmini di ogni città. Decine di video (amatoriali e non) dei cortei venivano pubblicate su Youtube. Le foto si vedono su Flickr. Molte anche su Facebook, dove i manifestanti si ritrovano ancora, si “taggano”, si commentano, si divertono, socializzano, si sentono sempre parte del movimento.


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