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Il ruolo della CSR nelle aziende a conduzione familiare

31/10/2012

Il tessuto imprenditoriale italiano è ricchissimo di piccole e medie imprese, condotte anche da diverse generazioni dallo stesso nucleo familiare. La responsabilità sociale d’impresa rappresenta per questa tipologia di organizzazioni una sfida molto importante. E’ il tema al centro di un saggio di _Giampietro Vecchiato_ e _Eleonora Marampon._

di Giampietro Vecchiato e Eleonora Marampon
Il tema della Responsabilità Sociale d’impresa (RSI o CSR, secondo l’acronimo anglosassone che sta per Corporate Social Responsibility) figura da più di mezzo secolo nelle agende di discussione pubblica, da quando cioè, sotto la spinta di una maggiore attenzione collettiva ai temi dell’ambiente e dell’etica, si è cominciato ad avvertire l’esigenza di apporre dei correttivi ai modelli capitalistici di azione imprenditoriale.
Secondo la definizione contenuta nel Libro Verde della Commissione Europea pubblicato nel 2001, la CSR corrisponde “all’integrazione volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate” (Libro Verde, 2001, p.7).
La RSI, pertanto, orienta le aziende nei confronti di uno sviluppo sostenibile che, giovando alla competitività e alla reputazione delle imprese stesse, sia in grado di garantire la conservazione del patrimonio ambientale, sociale ed umano per le generazioni attuali e per quelle future.
Dieci anni dopo la prima definizione, la Commissione Europea si è nuovamente espressa sul tema della CSR, pubblicando una Comunicazione (“Una strategia rinnovata dell’UE per la Responsabilità Sociale d’Impresa 2011-2014”) contenente le strategie di azione volte a rafforzare e coordinare le politiche sulla RSI fra gli Stati membri. All’interno del documento figura anche una nuova definizione di CSR intesa, con una formulazione sicuramente più ampia della precedente, come “la responsabilità delle imprese per gli impatti che hanno sulla società”.
Declinare il concetto di RSI in termini di aziende familiari rappresenta una sfida senza dubbio interessante, giacché le peculiarità di questo modello organizzativo richiedono un’analisi che tenga conto di molteplici punti di vista, molti dei quali fanno appello a valori intangibili difficili da oggettivare.
Tuttavia, prima di entrare nel vivo dell’analisi, è necessario inquadrare con maggiore precisione, e senza pretesa di esaustività, il tema della responsabilità sociale d’impresa, allo scopo di chiarirne con maggiore puntualità i confini.
1. Impresa: dimensione istituzionale e dimensione sociale
L’impresa, sotto il profilo giuridico, è un’attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi: questo è quanto si desume dalla definizione che ci fornisce il Codice Civile all’art. 2082. Inoltre, dal punto di vista economico, l’impresa per esistere deve generare profitto.
Questi due aspetti delimitano il campo d’azione dell’impresa ma non sono sufficienti a individuarne tutte le azioni e le relazioni che intrattiene.
L’impresa è inserita in un contesto sociale e territoriale con il quale deve rapportarsi e pertanto, quando si prendono decisioni economiche, si compiono allo stesso tempo delle scelte politiche, poiché ogni scelta ha delle ripercussioni sulla comunità. Il valore di un’organizzazione quindi non si limita al solo aspetto economico, ma comprende anche la capacità di partecipare allo sviluppo del contesto economico, sociale e ambientale in cui è collocata. La primaria responsabilità sociale dell’impresa rimane dunque quella di svolgere la propria missione produttiva, così da generare ricchezza; tuttavia, nel nuovo contesto, alla tradizionale responsabilità economica si affianca quella etica, cioè la capacità di tener conto nelle proprie decisioni anche degli interessi dei pubblici che vengono influenzati dalle proprie attività.
Le finalità economiche e sociali non possono quindi essere in contrapposizione ed è necessario armonizzarle per il buon funzionamento dell’organizzazione in un’ottica di lungo termine.
Finalità economiche, sociali e ambientali quindi non devono essere percepite come antitetiche, ma costituiscono i principi fondamentali su cui basare il governo dell’impresa secondo criteri etici. Mancinelli sostiene che “la responsabilità sociale non deve essere vista come un gioco a somma zero, dove la scelta fra etica e profitto è alternativa, ma un modo per aumentare la competitività dell’impresa attraverso una convergenza di interessi tra il progresso sociale e la produzione di reddito”.
Negli ultimi anni la fiducia riposta nelle aziende dall’opinione pubblica è diminuita a causa di condotte non esemplari che hanno minato la reputazione di molte organizzazioni: scandali societari, sfruttamento dei lavoratori, danneggiamento all’ambiente, bancarotte fraudolente, etc. (vedi i casi Enron, Nike, BP e, per l’Italia, Cirio, Parmalat, etc.). Pertanto è sempre più forte da parte dell’opinione pubblica la richiesta alle imprese di adottare una condotta etica e responsabile, considerata indispensabile per la creazione di fiducia e consenso.
Proprio sull’attitudine a non limitarsi al solo sviluppo economico dell’impresa ma di puntare ad un miglioramento della società nel suo complesso, si forma e si consolida la reputazione dell’impresa quale attore sociale. Le imprese, in un contesto ambientale sempre più fitto di connessioni sociali e politiche, non sono più considerate semplici “sistemi di produzione” di valori economici e finanziari, ma devono essere considerate attori protagonisti e motori (responsabili) dello sviluppo globale della comunità. In questo contesto si colloca la genesi e la gestione della RSI.
1.2 Evoluzione della RSI
È solo nell’ultimo decennio o poco più che le iniziative di RSI e le discussioni sulla sua natura sono entrate in modo prepotente nel dibattito accademico e nelle prassi aziendali, ma le origini, l’interesse per la responsabilità sociale e i tentativi di definirne ambiti e significati risalgono a molti decenni prima, soprattutto ad opera di autori e organizzazioni statunitensi.
Berle, nel 1931, sostenne che “tutti i poteri attribuiti a una corporation o al suo management devono essere sempre esercitabili solo a vantaggio di tutti gli shareholder” . Secondo questa tesi i manager agiscono avendo come unico obiettivo il soddisfacimento dei loro interessi. Ne derivava quindi una concezione assai ristretta della RSI. Alla tesi di Berle rispose Dodd l’anno successivo. Egli affermò che i manager dovevano usare i propri poteri a beneficio della collettività, anzi la stessa opinione pubblica si aspettava che questi riconoscessero e rispettassero volontariamente alcuni obblighi verso la comunità, i lavoratori e i consumatori. Dodd sottolineò inoltre come “l’impresa fosse autorizzata e incoraggiata dal diritto a essere al servizio principalmente della comunità piuttosto che ad essere una fonte di profitto per i suoi proprietari” e come i manager dovessero prendere in considerazione gli interessi di molte differenti costituencies dell’impresa. In conclusione, la posizione di Dodd, espressa nel dibattito con Berle, è volta a difendere più ampie responsabilità per il management. Per Berle invece le corporation dovrebbero essere amministrate a vantaggio degli shareholder non perché questi ne sono i “proprietari”, o a causa di qualche relazione di agenzia, ma perché in questo modo tutte le altre costituencies ne traggono beneficio. Il dovere fiduciario del manager verso gli azionisti trova così la sua giustificazione in considerazioni di public policy.
Dopo la seconda guerra mondiale, e in particolare negli anni ‘50, l’idea della RSI fu imposta al mondo delle imprese soprattutto da pubbliche prese di posizione da parte di business people: è del 1953 l’influente libro di Howard Bowen “Social Responsibilities of the Businessman” in cui si sottolinea la forza intellettuale della dottrina secondo cui i leader aziendali sono “al servizio della società” e “gestire l’impresa semplicemente nell’interesse degli shareholder non è il loro solo dovere” . Negli anni ‘60 il dibattito sulla RSI fu impostato a partire da due interessanti domande poste da Keith Davis : “Quali obblighi gli uomini d’affari hanno verso la società?” e “Possono le imprese permettersi di ignorare le proprie responsabilità sociali?”. Dal dibattito emersero numerose definizioni di RSI volte a rendere meno vago e ambiguo il concetto. Esso è stato spesso definito come l’assunzione volontaria di responsabilità da parte delle imprese che vanno oltre quelle puramente economiche e giuridiche. Questo aspetto è colto da Joseph Mc Guire quando afferma: “L’idea di responsabilità sociale suppone che la corporation abbia non solo obblighi economici e giuridici, ma anche responsabilità verso la società che si estendono oltre questi obblighi”.
Un importante tentativo di colmare il gap tra aspettative economiche e aspettative di altra natura è stato compiuto da Archie Carroll nel 1979. La definizione di RSI da lui proposta è la seguente: “la responsabilità sociale dell’impresa comprende le aspettative economiche, giuridiche, etiche e discrezionali che la società ha nei confronti delle organizzazioni in un dato momento.” In particolare, Carroll concepisce la RSI come un modello a quattro stadi: oltre la responsabilità economica (“essere redditizia”) e legale (“rispettare la legge”) troviamo la responsabilità etica, che riguarda i comportamenti non necessariamente codificati nel diritto ma che l’impresa fa propri perché rispondono a valori etici interiorizzati. Infine, oltre la responsabilità etica vi è la responsabilità discrezionale o filantropica (“essere un buon cittadino”), vale a dire che si adottano atteggiamenti che non sono prescritti dalla legge o dall’etica, ma “semplicemente desiderati dalla società”. In questa visione l’azienda vede nell’impegno etico-sociale la dimensione ultima del suo finalismo. Successivamente Carroll per illustrare in modo efficace la sua visione, ha sintetizzato graficamente i quattro componenti della sua definizione e li ha incorporati nella “Piramide della CSR” che ha goduto di ampia popolarità tra gli studiosi e che rimane ancora oggi uno dei paradigmi principali della RSI.
Le posizioni descritte in questa breve ricostruzione storica hanno in comune l’adozione di un approccio normativo al tema della RSI: le varie posizioni sostengono che le corporations devono comportarsi in modo diverso dallo scopo tradizionale dell’impresa, ovvero la massimizzazione del profitto per l’azionista. Secondo questa prospettiva alternativa, le imprese devono essere gestite per essere al servizio degli interessi di consumatori, dipendenti, investitori, fornitori e comunità come pure degli shareholder.
L’opinione secondo cui l’impresa ha una dimensione etica, oltre a una dimensione economica e giuridica, è quindi ormai accettata. Tuttavia gli studiosi si dividono sulla natura di tale dimensione, quali sono i doveri del manager e sull’identificazione dei soggetti nei confronti dei quali hanno obblighi. Il dibattito è tra i fautori della cosiddetta stockholder view, per i quali i manager hanno il dovere morale di aumentare il ritorno finanziario degli investitori e, dall’altro, i sostenitori della cosiddetta stakeholder view, per i quali i manager hanno il dovere morale di rispettare i diritti di tutti gli stakeholder (portatori di interesse) dell’impresa, cioè quei soggetti che possono essere influenzati dal conseguimento degli obiettivi aziendali.
1.3 Il dibattito attuale: l’integrazione sociale dell’impresa
Negli anni ‘70, l’azienda era responsabile quando faceva il suo dovere, ovvero rispettava le leggi, pagava le tasse e creava profitto. Verso la fine del secolo scorso l’azienda viene considerata responsabile se crea anche valore sociale per tutti i suoi stakeholder. Nel nuovo millennio emerge invece sempre più la visione dell’impresa come soggetto pubblico che concorre all’equilibrio globale. Infine, negli anni più recenti, il dibattito teorico della RSI sta spostando progressivamente il proprio focus dall’impresa al più ampio contesto competitivo e territoriale del quale essa è parte. In sostanza, si comincia a riconoscere che l’impresa è parte di un ambiente con il quale interagisce e dal quale è influenzata e si indaga sulla natura di tali interazioni. In questo senso i principali riferimenti teorici sono rappresentati dall’evoluzione del pensiero di Porter, Zadek e Freeman.
Porter e Kramer partono dal presupposto che il mercato e il contesto sociale sono realtà interdipendenti, perciò propongono “una nuova visione del rapporto fra business e società, una visione che non considera il successo delle aziende e il bene sociale come un gioco a somma zero”.
Viene introdotto così “un modello che le imprese possono utilizzare per identificare tutti gli effetti, positivi e negativi, che hanno sulla società, determinare quelli che meritano un loro intervento e individuare un modo efficace per intervenire”. Porter e Kramer operano una fondamentale distinzione tra RSI Reattiva e RSI Strategica. Gli Autori mettono l’accento sul fatto che, per poter operare in modo strategico, l’impresa deve saper anzitutto realizzare una buona integrazione tra interno ed esterno, e saper selezionare le cause su cui investire in modo prioritario, per creare “un valore condiviso, ovvero un beneficio rilevante per la società, che rivesta un valore anche per l’impresa”, la desiderata e desiderabile situazione win-win.
Nel prosieguo del saggio affermano: “La CSR Strategica non si limita a un supporto di ampio respiro alle cause sociali e a una gestione sistematica degli effetti della catena del valore, ma prevede l’attuazione di un numero limitato di iniziative che siano in grado di portare benefici ampi e significativi alla società e al business. In questo modo i problemi sociali diventano una fonte di opportunità invece che un costo o un vincolo”. Secondo gli autori, vista da una prospettiva strategica, la RSI può essere una fonte di opportunità, innovazione e vantaggio competitivo.
In una logica win-win l’impresa che si dimostra competitiva lo è in maniera coerente rispetto alle dinamiche del territorio e del settore del quale è parte. Per conseguire tale risultato è necessario analizzare tale interdipendenza con “gli stessi strumenti utilizzati per analizzarne la posizione competitiva e svilupparne la strategia”. Questo permetterà all’impresa, da un lato, di individuare i propri impatti, la loro natura e le attività di RSI che svolge, ma anche di individuare una scala di priorità, identificando le aree di azione che presentano il maggior valore strategico e il maggior beneficio sia all’impresa che alla società. I principi sino ad ora enunciati si traducono in una riproposizione della catena del valore che diviene così “catena del valore sociale”, uno strumento che consente di entrare all’interno dei processi aziendali e fornisce una chiave di lettura per la revisione dei processi produttivi e organizzativi, in modo da massimizzare non solo la produzione del valore economico ma anche di quello sociale.
Le argomentazioni e le conclusioni di Porter e Kramer circa la natura sempre più strategica della RSI è in sintonia con la Teoria degli Stakeholder di Freeman ed è stata condivisa da numerosi autori, fra cui, in Italia, Perrini e Tencati . L’approccio di Porter rappresenta quindi il nuovo punto di riferimento per l’analisi interna alle organizzazioni alla quale tuttavia si ferma. L’intuizione di Porter, sulla necessità di considerare l’impresa all’interno dell’ambiente del quale è parte e dal quale può non solo prelevare ma anche apportare valore sociale, è stata ulteriormente sviluppata da Freeman e Zadek, a partire da punti di osservazione differenti.
Lo stesso Freeman, a trent’anni dalla sua Teoria degli Stakeholder, propone una nuova visione, modificando provocatoriamente la traduzione di CSR, Corporate Social Responsibility, in Company Stakeholder Responsibility, estendendo il concetto di RSI a tutte le organizzazioni, non più solo all’impresa. Come Porter, Freeman afferma che non si tratta semplicemente di compensare insufficienti cambiamenti per i consumatori o le comunità con interventi di tipo filantropico, quanto piuttosto di chiedersi come venga creato il valore all’interno dell’impresa. L’intento è quello di puntare l’attenzione sul ruolo sociale di ogni forma di organizzazione che produce valore (sottolineando che business ed etica non sono disgiunti) e sulla rilevanza degli stakeholder, primi interlocutori e soggetti influenzanti e influenzati dall’operato dell’organizzazione. La sfida attuale consiste nel superare le visioni che vedono affari economici e responsabilità sociale come due attività separate ed arrivare ad una loro integrazione, dove gli investimenti di natura sociale portano benefici alla comunità ma anche rafforzano il successo dell’impresa. Le decisioni economiche e le politiche sociali devono seguire il principio del “valore condiviso” . Questo può avvenire solo individuando le intersezioni, le opportunità di business nel campo della responsabilità ed inserendole nel piano strategico aziendale.
Se l’impresa è un soggetto che contribuisce alla creazione condivisa di valore sociale all’interno dell’ambiente del quale è parte attiva, allora in qualche modo si viene a profilare una nuova concezione dell’ambiente esterno, dal quale emerge una nuova dimensione di governance territoriale. Riconoscendo all’impresa le capacità di incidere sulla creazione di valore economico e sociale oltre i confini dell’organizzazione, si afferma che tale capacità implica una responsabilità per l’impresa, che deve quindi tenerne conto nella gestione del rapporto con i propri stakeholder. L’azienda a questo punto deve cercare di coordinare tale azione con quella degli altri attori che contribuiscono a loro volta alla creazione del valore sociale all’interno del medesimo ambiente di riferimento. È questo il punto di partenza della riflessione suggerita da Zadek, che propone una revisione del concetto di governance come “governance partecipata” alla cui realizzazione prendono di fatto parte tutti gli attori sociali che contribuiscono alla creazione del valore: il soggetto pubblico, il mondo imprenditoriale e la società civile organizzata. La rivisitazione del ruolo dell’impresa deriva dal riconoscimento della crescente incertezza e complessità del contesto che non consente più ad un unico soggetto di elaborare soluzioni efficaci ed efficienti per il governo di situazioni estremamente articolate. Queste sono le ragioni del nascere di numerose partnership intersettoriali che testimoniano lo sviluppo di un vero e proprio nuovo modello di governance partecipata.
Ricapitolando, negli anni ‘60, quando il mito dell’impresa come motore e centro propulsore del benessere non era stato ancora intaccato dall’evidenza degli effetti di un agire dissennato, Friedman sosteneva che il dovere sociale dell’impresa fosse quello di ottenere i più elevati profitti, producendo ricchezza e lavoro nel modo più efficiente. La gestione aziendale orientata all’efficienza poteva produrre effetti negativi di natura sociale, ma era opinione diffusa che tali problemi rientravano esclusivamente nella sfera delle attività di competenza dello Stato.
Successivamente si è verificato uno spostamento del centro del sistema, che prima ruotava intorno all’impresa, alla sua logica e ai suoi obiettivi. Con l’evoluzione del concetto di corporate governance si è assistito al passaggio del focus dal profitto alla creazione di valore per gli stakeholder. La massimizzazione dei risultati dell’impresa a beneficio di tutti gli interlocutori sociali e di tutte le forme di valore consumate, gestite e generate dall’azienda implica il passaggio dalla nozione tradizionale di valore prodotto per gli shareholder a quella di valore sostenibile per l’ambiente sociale, politico e fisico. In sintesi, autenticamente responsabile si dimostra l’impresa che è vitale, dove la vitalità è dimostrata dalle performance reddituali e dalla crescita esaminate su un arco temporale pluriennale, e nel contempo socialmente orientata, dove l’orientamento sociale è dimostrato dall’attenzione portata al soddisfacimento delle legittime attese di tutti gli stakeholder, a partire dai collaboratori e dagli azionisti. Non è sufficiente produrre profitto, ma questo deve essere realizzato bilanciando priorità di breve e necessità di lungo termine; solo così le strategie di crescita dell’impresa coincideranno con le esigenze di uno sviluppo sostenibile, rispettoso dei valori culturali e sociali fondamentali. Gli aspetti etici di correttezza, responsabilità, trasparenza, e rispetto dei diritti fondamentali hanno un ruolo fondamentale nella RSI in quanto da essi dipende la legittimazione sociale dell’azione imprenditoriale senza la quale l’impresa non può sopravvivere e svilupparsi. L’imprenditore la può ottenere solo dimostrando pubblicamente di tenere conto, nei propri programmi di sviluppo, la compatibilità con i valori condivisi nell’ambiente sociale in cui opera.
Di recente, il dibattito sulla CSR si è arricchito tramite un’importante novità legislativa made in USA: tutte le imprese che operano secondo obiettivi di natura sostenibile possono, ora, registrarsi come benefit corporations, ottenendone in cambio alcuni vantaggi.
Per costituirsi come B-corp, è necessario che la missione sociale sia formalizzata all’interno dello statuto d’impresa. Come conseguenza, il manager di un’impresa “sociale” è legalmente vincolato ad anteporre gli scopi di natura sociale a quelli degli azionisti, pena il licenziamento o la citazione in giudizio. Egli ha, inoltre, l’onere di produrre annualmente un report sulle proprie performance ambientali e sociali.
Vediamo ora di analizzare la Corporate Social Responsibility dal punto di vista delle aziende di famiglia.
2. Aziende di famiglia e RSI
Le aziende di famiglia rappresentano la cifra distintiva del sistema produttivo del nostro Paese: l’Aidaf (Associazione Italiana delle aziende familiari) stima, infatti, che l’80% delle imprese italiane siano family business. Numeri importanti, dunque, che definiscono un fenomeno di ampissima portata, principalmente in termini di occupazione impiegata, di fatturato e di valore aggiunto prodotto. Senza voler entrare nel merito economico del capitalismo familiare – che esulerebbe dagli scopi di questa analisi – è dunque interessante sviluppare un ragionamento che coniughi la CSR a tale modello di impresa, a maggior ragione se si considera che le aziende familiari hanno, per loro stessa natura, delle caratteristiche che le rendono potenzialmente ricettive nei confronti politiche di responsabilità sociale.
Eppure, gli studi che la letteratura ha finora prodotto in materia sono molto esigui; gli unici dati empirici a disposizione provengono da ricerche condotte nell’ambito delle grandi imprese che, in virtù di risorse economiche e di personale più consistenti e di una più forte consapevolezza del tema, hanno investito maggiormente nell’adozione di comportamenti socialmente responsabili.
Un’ulteriore complicazione deriva dalla mancanza di una definizione condivisa di “impresa familiare”, termine con il quale su usa far riferimento ad una gamma estremamente eterogenea di situazioni. Se, infatti, in via approssimativa, il capitalismo familiare può essere definito come l’insieme di quelle situazioni in cui una stessa famiglia gestisce un’impresa nella quale detiene una rilevante quota di proprietà” (Marsaguerra, 2005, p.15), è pur vero che questa stessa definizione fa appello ad una realtà dicotomica: da un lato le grandi imprese a conduzione familiare (vedi Benetton), dall’altro le aziende medio-piccole. Tra queste due polarità, l’applicazione di modelli di responsabilità diverge notevolmente.
Ai fini di questa analisi ci concentreremo esclusivamente sulle imprese medio-piccole: il rischio di prescindere dalla dimensione aziendale, è, infatti, di ignorare tutte quelle peculiarità
che contraddistinguono questa particolare forma di governo societario in cui la coesistenza fra la forma dimensionale ridotta e il carattere di “familiarità” nella gestione della proprietà genera un complesso intreccio di relazioni fra la famiglia, la struttura proprietaria, gli stakeholder e il business.
2.1 Le caratteristiche delle aziende familiari: ostacolo o fattore di successo?
Nel computo dei tratti distintivi della piccola impresa a carattere familiare, vanno sicuramente incluse tutte quelle caratteristiche che discendono dalla forma dimensionale ridotta e dalla particolare tipologia della proprietà:

una base azionaria concentrata (in genere la famiglia detiene una quota del capitale di rischio sufficiente a garantirne il controllo e i membri della famiglia occupano le posizioni preminenti in azienda);
una più o meno marcata sovrapposizione tra ruoli aziendali e familiari (non è mai facile distinguere i confini della famiglia da quelli dell’impresa);
un’organizzazione leggera, caratterizzata da relazioni poco formali con dipendenti/fornitori/clienti/stakeholder;
radicamento nel territorio.

Tali caratteristiche hanno rappresentato, soprattutto in passato, un importante elemento di forza, dal momento che hanno garantito a queste aziende una flessibilità che ha permesso loro di conseguire importanti successi, in Italia come all’estero. È pur vero, tuttavia, che in un momento economico pesantemente sfavorevole, con la globalizzazione dei mercati, una pressione fiscale da record storico, e la difficoltà di accesso al credito, questa stessa struttura può divenire un ostacolo alla crescita e allo sviluppo.
Anche la declinazione della responsabilità sociale nelle aziende di famiglia può essere letta alla luce di questa doppia interpretazione, dal momento che le stesse caratteristiche possono rappresentare, a seconda della prospettiva assunta, un ostacolo al cambiamento o, al contrario, trasformarsi in driver per l’adozione di comportamenti pro-sociali.
Nello specifico, esiste, innanzitutto, una scarsità di risorse finanziarie che comporta una generale difficoltà nel reperire risorse da dedicare agli investimenti, come ad esempio l’avvio di attività in ricerca e sviluppo. Non va dimenticato, infatti, che l’adozione di comportamenti socialmente responsabili, ha carattere volontario e, nel caso specifico, risulta strettamente legata alla sensibilità della famiglia imprenditoriale, che spesso la vive come un costo.
In secondo luogo, si verifica spesso una scarsità di risorse umane qualificate legata ad una limitata capacità di assunzione e ad un turnover molto basso, che rende difficile dedicare personale al presidio della RSI.
Questa situazione si accompagna ad una carenza di capacità manageriali, visibile soprattutto nel passaggio di proprietà di padre in figlio. Il momento del passaggio generazionale è cruciale: ogni anno molte PMI a carattere familiare falliscono proprio perché non sono state in grado di superare le criticità date dalla transizione. Il problema è legato, chiaramente, alla natura ereditaria del potere: non sempre, infatti, i figli hanno le stesse capacità imprenditoriali dei genitori. Eppure, il desiderio di trasmettere la proprietà alla generazione successiva spesso è più forte della razionalità economica che porterebbe ad affidare l’azienda a terzi. Ciò non deve sorprendere se si considera che, nella maggioranza dei casi, i fondatori delle odierne aziende di famiglia sono imprenditori nati in un’epoca in cui, per poter condurre gli affari, era sufficiente la capacità manageriale istintiva, da affinare poi sul campo mediante l’esperienza diretta. Questo tipo di logica familiare spesso può impedire la valorizzazione di dipendenti meritevoli ma esterni alla famiglia, con la loro conseguente esclusione dai ruoli manageriali. Essere socialmente responsabili, tuttavia, significa anche creare le condizioni per la piena realizzazione e valorizzazione di tutti i collaboratori.
Alla base delle debolezze delle aziende familiari vi è, poi, l’identificazione tra proprietà e management che, unita al carattere familiare del business, determina un basso grado di strutturazione dell’azienda. La sovrapposizione fra “sistema impresa” e “sistema famiglia”, la spesso poco chiara definizione dei ruoli e delle responsabilità, così come la comunicazione troppo informale nei confronti dei pubblici sia interni che esterni, danneggiano pesantemente la governance e diventano un ostacolo al cambiamento. Una governance inefficace, a sua volta, è un fattore di rischio molto acuto, dal momento che appesantisce l’organizzazione interna dell’azienda, impedendole di implementare correttamente la strategia aziendale. Non solo: in assenza di un organigramma che definisca con precisione ruoli e responsabilità si corre il rischio che i momenti di conflittualità interni alla famiglia finiscano per interferire con la gestione del business, rendendo più problematica la risoluzione della crisi.
Si riscontra, poi, in questa tipologia di aziende, una certa “opacità informativa”, che si spiega sia con la tradizionale riservatezza degli imprenditori, che con la mancanza di una cultura della comunicazione vera e propria. Ciò fa sì che sia difficile, per l’interno (dipendenti, cda) e per l’esterno (banche, clienti, fornitori e stakeholder in genere) riuscire a percepire la strategia aziendale e credere in essa. (Zocchi, 2005).
Parallelamente, tuttavia, gli svantaggi derivanti dal carattere della “familiarità” vengono controbilanciati dal sistema valoriale tipico del capitalismo familiare, che lo rende un terreno particolarmente fertile per lo sviluppo di iniziative di responsabilità sociale.
La chiave interpretativa è, qui, quella della corporate reputation: data la sostanziale identità tra azienda e famiglia proprietaria, la creazione e il mantenimento di una solida reputazione diventano un fattore di grande importanza, in misura maggiore se la ragione sociale dell’impresa coincide con il cognome della famiglia stessa.
Il valore più concreto generato dalla CSR consiste, per l’appunto, in un miglioramento del proprio capitale reputazionale, indispensabile ora che i consumatori possono contare su nuovi parametri di valutazione e sono diventati più informati e selettivi.
La reputazione della famiglia, infatti, produce effetti di stima e fiducia nelle relazioni con i propri stakeholder e spinge il management ad impegnarsi ulteriormente per il successo dell’impresa; non a caso, le aziende a conduzione familiare sono un tipico esempio di “capitale paziente”, in cui la creazione di ricchezza viene perseguita nel lungo termine, mentre ciò che viene privilegiato in prima battuta è il consolidamento dell’azienda stessa.
A ciò fa da sponda il poter contare su di una lunga storia aziendale, che testimonia, in genere, un segnale concreto di stabilità e visione imprenditoriale di lungo periodo, riducendo il rischio che la CSR venga percepita come operazione speculativa e di immagine.
Una solida reputazione è un importante asset strategico, e se è vero che è difficile operarne una misurazione, i vantaggi che ne derivano sono reali e concreti. In un periodo di crisi come quello attuale, ad esempio, godere di una reputazione basata su una realtà aziendale comprovata aiuta a migliorare i rapporti con le istituzioni finanziarie: in presenza di dati contabili spesso inaffidabili, le banche hanno cominciato, infatti, a battere strade nuove nei loro criteri di valutazione, riducendo il ruolo degli indicatori automatici e recuperando una propria capacità discrezionale.
Nel caso della concessione del credito, nello specifico, gli istituti bancari stanno ritornando a guardare alla storia dell’imprenditore e dell’azienda: va da sé che più il comportamento dell’impresa è virtuoso, più aumenteranno le possibilità di essere valutati in maniera positiva.
Anche il basso grado di formalizzazione delle relazioni interne ed esterne all’azienda non sempre deve essere interpretato in maniera negativa: se da un lato può causare inefficienze, dall’altro inquadra relazioni in cui la dimensione dell’affettività gioca un ruolo maggiore. Ciò si traduce, ad esempio, una maggiore attenzione al mantenimento dei posti di lavoro durante i periodi di crisi.
L’impegno verso la responsabilità sociale crea, inoltre, un ambiente di lavoro più sereno che favorisce la fidelizzazione del personale e la sua motivazione sul lavoro, a tutto vantaggio della produttività. In più, un ambiente collaborativo ed aperto è la condizione necessaria per lo sviluppo di nuove idee, favorendo il processo di innovazione interno all’impresa.
Infine, il forte radicamento nel territorio comporta una conoscenza approfondita del contesto di riferimento, nonché la possibilità di instaurare un rapporto diretto con i propri stakeholder. L’attenzione nei confronti di questa specifica realtà fa parte del dna delle piccole e medie imprese, che non dimenticano mai di essere inserite all’interno di un contesto ben specifico. Nell’economia post-industriale il territorio diventa centrale per la produzione di ricchezza e per il potenziamento della competitività; esso, infatti, può divenire fonte di ispirazione per individuare, sulla base delle proprie peculiarità naturali o storico-culturali, soluzioni e prodotti innovativi o sostenibili. In questo senso il territorio non va solo sviluppato in termini produttivi, ma richiede anche di essere conservato e protetto.
Iniziative volte alla valorizzazione del patrimonio ambientale e culturale, alla riduzione degli sprechi e delle emissioni, alla riutilizzazione dei materiali (riciclo) e all’abbattimento dei consumi elettrici, possono andare in questa direzione, portando con sé un aumento della redditività e della competitività. Senza contare che le valenze sociali ed ecologiche contribuiscono positivamente al posizionamento di prodotti e servizi, dal momento che permettono di conquistare nicchie di mercato composte da consumatori che, oltre a valutare prezzo e qualità, assegnano un valore specifico anche al rispetto di codici etici.
Sulla base di questi driver, lo spettro dei comportamenti di responsabilità sociale si allarga notevolmente, andando al di là delle grandi elargizioni filantropiche: certificazioni ecologiche dei prodotti, misure a favore della formazione e della sicurezza sul lavoro, investimenti nel sociale, partnership con enti non-profit, sono solo alcune delle possibili soluzioni attuabili.
Nel panorama italiano si sta osservando, da parte delle imprese, una graduale apertura nei confronti della RSI, sia pur con modalità disomogenee e difficilmente confrontabili.
Se le grandi aziende cominciano a riconoscere, in virtù dei cambiamenti sociali e ambientali che si stanno verificando, l’importanza dell’essere socialmente responsabili, o, quantomeno, dell’inserirsi nel contesto di riferimento riducendo il più possibile le esternalità negative, spesso le piccole e medie imprese mettono in atto comportamenti di CSR in modo inconsapevole, quasi intuitivo, che riflettono la sensibilità e le personali inclinazioni dell’imprenditore.
Tale sensibilità spesso nasce in modo naturale, come conseguenza del forte legame con il territorio di appartenenza, che si manifesta nel sostegno della propria comunità tramite elargizioni dirette, sponsorizzazioni di squadre sportive locali o associazioni non-profit, senza dimenticare la valorizzazione e il rispetto dei propri dipendenti.
In molti casi, l’adozione di queste pratiche viene vissuta come fatto intimo, defilato, da non comunicare e, come conseguenza, viene percepito come separato dal business. Ciò fa sì che la responsabilità sociale d’impresa venga attuata in modo occasionale, senza che vi sia una strategia ex ante di base a sostegno dell’azione.
Il deficit di comunicazione verso l’esterno rischia, inoltre, di far percepire l’impresa come poco trasparente, a danno quindi della sua reputazione.
Per tali ragioni, la diffusione di una cultura della comunicazione e della responsabilità sociale d’impresa presso queste realtà è fondamentale, perché solo in questo modo la CSR potrà essere veramente di beneficio alle imprese virtuose che sceglieranno di seguirne il percorso.
Figure fondamentali, in questo passaggio, sono quei soggetti esterni alle imprese – vedi il comunicatore, l’Aidaf, le associazioni di categoria, gli enti locali e le istituzioni in genere – che dovrebbero assumersi il compito di sensibilizzare le aziende al tema facendo percepire chiaramente i vantaggi derivanti dall’adozione di questi modelli. Il principale valore prodotto dai comportamenti di responsabilità sociale – il miglioramento della reputazione – ha, infatti, un carattere di intangibilità che non è immediatamente comprensibile o condiviso da chi è abituato a gestire la propria attività con concretezza e pragmatismo.
Dal canto loro, le aziende familiari dovrebbero imparare ad esplicitare la propria azione sociale a due livelli: all’interno, assicurando la trasmissione dei propri valori alle nuove generazioni di manager (anche ricorrendo al mercato); all’esterno, comunicando le proprie azioni sociali come elemento di distintività. La grande responsabilità è, qui, del capo-famiglia, in qualità di imprenditore. A lui spetta, infatti, il compito di fornire le linee di indirizzo per l’adozione di una politica aziendale socialmente responsabile, integrandola all’interno di una visione strategica di lungo termine.
A conclusione di questo percorso attraverso i temi della responsabilità sociale, è bene fare una precisazione, sicuramente valida per l’intero sistema imprenditoriale del nostro Paese: molto spesso l’attenzione a preoccupazioni di natura etica e sociale all’interno di un business va spesso ad innestarsi su comportamenti quotidiani che mal si coniugano con il concetto di responsabilità sociale. È il caso, ad esempio, dell’evasione delle norme di legge sul lavoro e sulla sicurezza e sulla fiscalità. Va da sé che, affinché la CSR non sia solo un’operazione di facciata (greenwashing), è necessario che la gestione dell’impresa venga “ripulita” da tutti quei comportamenti che si scontrano con essa.
I “palliativi” della CSR non sono più sufficienti: serve un approccio radicale ed etico alla responsabilità che veda la crescita sociale come obiettivo centrale e non secondario dell’impresa. “I programmi di CSR – affermano Porter e Kramer – si focalizzano principalmente sulla reputazione e hanno un collegamento limitato con il business, il che rende difficile giustificarli e mantenerli nel lungo periodo. Per contro la creazione di valore condiviso è funzionale alla profittabilità e alla posizione competitiva dell’azienda. Sfrutta le risorse specifiche e le sue expertise per creare valore economico attraverso la creazione di valore sociale”.
Il nuovo paradigma rende di grande attualità le parole pronunciate da Henry Ford nei primi anni del secolo scorso: “L’impresa deve essere gestita con profitto altrimenti muore. Ma quando la gestione mira unicamente al profitto, l’impresa è condannata a morte, perché non ha più alcuna ragion d’essere”. Una sfida che vale la pena di affrontare per la nostra stessa sopravvivenza.
Fonte: Quaderno n.3 del Centro Studi De Poli di Venezia (CLEUP, 2012)

Bibliografia e sitografia

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