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InspiringPR: Intervista ad Alberto Pirni

13/05/2025

Marina dalle Carbonare

Sempre più spesso sentiamo parlare di “etica” quando affrontiamo i temi del nostro tempo. Ma sappiamo davvero cosa significa etica? Ne discutiamo a Inspiringpr 2025 con Alberto Pirni, professore di Filosofia morale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, per capire come questo concetto possa – e debba – guidare le nostre scelte e le nostre decisioni in un’epoca segnata da cambiamenti tanto rapidi e complessi com’è quella attuale

 


Il temine “etica” entra sempre più frequentemente nelle nostre riflessioni quando si parla di imprese, di politica, di tecnologia, di persone, di ambiente. Questa parola viene spesso associata a dinamiche comportamentali per darne un’accezione positiva, in modo spesso improprio e abusato.
Cominciamo perciò la nostra conversazione spiegando cosa dobbiamo intendere per “etica”: come la definirebbe?

Il termine etica è uno di quelli per i quali si applica molto bene il famoso adagio di Hegel “quello che è noto, proprio perché è noto, non è conosciuto”. Può essere perciò utile ricordare la complessità e pluralità intrinseca del termine. Etica ha almeno tre significati fondamentali.
Innanzitutto, etica significa carattere, indole, ovvero il modo attraverso il quale noi rispondiamo a stimoli esterni per nostro immediato e più diretto impulso o reazione.


In seconda approssimazione, etica significa abitudine, costume. Tale espressione allude al modo reiterato e costante attraverso il quale ciascuno di noi è solito rispondere a quegli stimoli esterni.
Vi è infine un terzo significato di etica, forse meno noto, ma non per questo meno importante: secondo quest’ultimo etica significa dimora, tana (riferita ad animali), ovvero ciò che in termini contemporanei saremmo soliti qualificare come “comfort zone”. Questo significato rimanda al fatto che non co-esistiamo mai insieme agli altri in forma individuale ed impenetrabile dall’esterno, ovvero in una sorta di vuoto pneumatico, ma siamo sempre connessi con altre serie di abitudini, di costumi, di modalità di reazione, insomma in una rete di risposte a domande che riguardano il nostro agire, sia a livello individuale, sia a livello collettivo e intorno all quali ciascuno di noi è chiamato a prendere posizione.


Etica di chi “fa” impresa e di chi “comunica per” l’impresa. Si tratta sempre di un rapporto sinergico e complementare o lei vede possibili criticità? In quest’ultimo caso, come gestire il dialogo per rispettare le regole dell’etica?

Ancora una volta la filosofia classica ci aiuta ad approssimaci ad una risposta. Richiamando la costruzione teorica che Aristotele dedica al concetto di virtù, potremmo immaginare la comunicazione in equilibrio tra due estremi: da un lato abbiamo la trasparenza totale, ovvero il dire tutto e sempre, in qualsiasi momento, dall’altro estremo starebbe invece la riservatezza assoluta, ovvero il non dire nulla, in nessun momento od occasione. La virtù della comunicazione sta nel trovare il giusto mezzo: capire qual è il momento giusto per dire la cosa giusta, ovvero ciò che il nostro interlocutore si attende, quanto occorre per sbloccare una situazione specifica, quanto pone tutti sullo stesso piano informativo e perciò include ciascuno, pensando a quanto sopra, nella stessa “dimora”.


Potremmo dire che la comunicazione etica per eccellenza è comprendere il momento appropriato per trovare la via di mezzo; capire quando è il momento migliore per dire la cosa migliore.
Compresa in questo modo, “comunicazione può affiancarsi a quanto Aristotele qualificava come saggezza rispetto al contesto nel quale noi ci troviamo. Potremmo convenire che è sempre stato difficile essere saggi. Oggi è ancora più difficile provare ad esercitare tale capacità comunicativa,- innanzitutto per la totale permeabilità dei “tessuti” formativi,quindi per la totale difficoltà a controllare le fonti, poiché siamo in presenza di una pulviscolare pluralità di fonti informative.
Ci troviamo di fronte a un destino molto complicato per la comunicazione nel tempo presente; siamo di fronte a una grandissima tecnologia comunicativa, e a rilevantissime potenzialità tecnologiche di comunicazione, alle quali dovrebbe corrispondere un’analoga maggiore formazione etica mentre avviene purtroppo il contrario: siamo tutti pronti a potenziare lo strumento; quasi mai a potenziare la consapevolezza dei fini per i quali esso dovrebbe essere usato
E’ chiaro che la competenza etica rispetto alla comunicazione non rappresenta un’urgenza avvertita quanto l’adeguatezza tecnologica.


Stiamo correndo il rischio di perdere del tutto la partita di una comunicazione etica, senza considerare le enormi possibilità, ma anche i pericoli enormi, che l’autogenerazione di contenuti comunicativa da parte dell’artificial intelligence può creare. Forse non ce ne stiamo neppure rendendo conto, ma questo è il rischio più recondito, il fatto che qualcuno generi contenuti, la cui autenticità nessuno può controllare, che vengono spacciati per autorevoli fonti comunicative.


Etica e intelligenza artificiale: si aprono scenari complessi. Quali sono le sfide aperte e quali le linee guida per affrontarle correttamente?

Si è soliti affermare che l’artificial intelligence aiuta a svolgere compiti ripetitivi, che non richiedono troppo la nostra attenzione, per farci risparmiare tempo. La vera domanda da porci a questo punto è: perché dovremmo limitarci nel suo uso, perché dovremmo arrivare a un momento nel quale diciamo “qui basta, qui ci fermiamo”? Vorremmo e siamo quindi davvero pronti ad un uso dell’artificial intelligence non confinato da limiti e confini?


Non si tratta naturalmente di essere tecnofobici e neppure tecnofiliaci; si tratta piuttosto di essere tecnocritici, cioè di stabilire le possibilità e tracciare i confini.
Nel provare a definirci tecnocritici non stiamo infatti affermando qualcosa di diverso da quanto già previsto da molti altri ambiti dell’agire comune. Ad esempio, tutte le istanze, le possibilità, le creazioni umane che possono provocare danni o difficoltà all’uomo, sono normate e sottoposte a controlli di legge, quali limiti di età o di competenza. È così per la vendita di sigarette, di alcool o la guida di automezzi specifici. Tutti questi ambiti prevedono.

 

regole stringenti, limiti di età chiari, come avviene anche per l’esercizio del voto.
Dobbiamo allora chiederci perché un atteggiamento del genere non viene adottato per l’uso dell’artificial intelligence. Perché non poniamo dei limiti nei confronti di questi device, ai quali possiamo proporre qualsiasi domanda? Forse si potrebbero bloccare alcune funzioni, utilizzi, argomenti, forse anche abilitare l’accesso solo a chi abbia fatto corsi di formazione all’utilizzo funzionale – ma anche all’utilizzo etico di questo strumento, anziché consentirlo in forma libera o dietro pagamento a chiunque e a qualunque età o livello di formazione. Questo ci potrebbe proteggere da possibili misuse, cattivi usi, cattive comprensioni e soprattutto da rinnovate difficoltà o dipendenze da un device che è certo vorticosamente interessante proprio per la velocità e la facilità con cui ci dà risposte.


Chiediamoci dunque se non abbiamo bisogno di istituire una sorta di patente, una modalità abilitante per l’utilizzo di tecnologie terribilmente affascinanti, ma anche terribilmente pericolose.

 

Siamo costantemente bombardati da dati e informazioni capaci di influenzare le nostre decisioni e indirizzare le nostre scelte in ogni campo, con impatto particolarmente significativo quando queste riguardano le dimensioni della sostenibilità. Come va interpretata l’etica per guidare queste complessità?

L’etica può essere una guida fondamentale nelle decisioni legate alla sostenibilità, in tutte le sue forme: ambientale, sociale ed economica. Per farlo, può attingere al suo antico strumentario concettuale, per cui l’etica ha almeno tre grandi famiglie di teorie abilitanti per orientare e guidare l’assunzione di decisioni.

Da un lato, le teorie deontologiche, che si basano sul concetto di dovere, ovvero sulla proposta di principi di rilevanza universale e dalla chiara concatenazione logica a partire da principi generali e di generale condivisione. Non si tratta di un semplice “devi perché devi”, bensì di offrire principi che hanno una cogenza di profilo universale e una fondatezza sulla dignità delle singole persone come primo principio, che non si può evitare di prendere in considerazione e rispettare in tutte le fasi, decisionali ed attuative di un determinato comportamento o linea di azione.


Il secondo approccio è quello che si riferisce alle teorie conseguenzialiste e guarda alla consapevolezza fondamentale (e invero molto analiticamente definibile) che dalle nostre azioni discendono conseguenze. Valutare le nostre azioni sulla base degli effetti che esse hanno generato, o presumibilmente genereranno, dovrebbe essere motivo per inibirci dall’assumere alcune decisioni, ovvero correggere / riorientare alcuni comportamenti che dalle medesime potrebbero avere origine, generando conseguenze quantomeno rischiose.


Vi è poi un terzo ambito concettuale, che si rifà alla cosiddetta etica delle virtù. In questo caso si tratta di elaborare un modello comportamentale completo e pronto a offrire risposte per ogni possibile ambito decisionale e comportamentale, con l’invito implicito a chiederci: “qual è il mondo che vorremmo e qual è il cittadino che vorremmo abitasse il mondo che vorremmo?”

Quel mondo e quel cittadino incarnano (almeno) una virtù, ovvero un modello comportamentale esemplare. In questo caso si tratta della virtù della sostenibilità nel senso più ampio e plurivoco del termine, modello comportamentale che indicherà specifici comportamenti da consolidare e promuovere, insieme a specifici comportamenti da condannare ed evitare.


Questi tre modelli – deontologico, conseguenzialista e di etica della virtù - ci offrono delle dimensioni di senso intorno alle quali costruire piani di decisioni o di comportamento possibili.Naturalmente, prendere decisioni etiche non è facile. Spesso le nostre decisioni sono frutto dell’interesse di alcuni versus l’interesse di altri, magari frutto della disinformazione o della informazione parziale o esito delle più svariate e variabili catene di selezione e semplificazione decisionale. In ultimo, ma certo non da ultimo, sono frutto dello short-termism, cioè dell’opera politica di piccolo ingaggio e dal rapido risultato: si tratta di quell’atteggiamento che implicitamente ed esplicitamente richiede risposte immediate e avere esattamente quelle che vogliamo o avevamo immaginato come le più opportune. Su questo si fondano tanti fenomeni e mali del nostro tempo. Solo per fare un esempio, si guardi al populismo, complesso insieme di fenomeni differenti, ma al fondo riuniti dal tentativo di avere una immediata soddisfazione dei nostri interessi senza guardare al beneficio di medio-lungo termine - e senza soprattutto guardare al beneficio collettivo.


E’ chiaramente difficile rinunciare oggi a comportamenti che assicurano un risultato immediato e coagulare consenso attorno a comportamenti orientati al futuro e a favore di chi vi sarà domani. Tuttavia, è questa la strada da seguire; una visione che l’etica, la filosofia morale, devono avere il coraggio di tentare “in e insieme” all’elaborazione di una serie di proposte di affiancamento di tutte le apicalità sociali, siano essere politiche, istituzionali o imprenditoriali. Insomma, è una risposta corale ad un’unica esigenza, che va perseguita con tutti gli strumenti concettuali che abbiamo a disposizione e che certamente l’etica, accanto ad altre discipline, mette a disposizione del sapere contemporaneo.


Focalizziamoci sull’ambiente in cui viviamo e le implicazioni del climate change, che ci colpiscono direttamente con forti ripercussioni sulle nostre vite e dove tutti noi – anche come individui – possiamo essere protagonisti, agendo con senso etico nei confronti di risorse essenziali, quali ad esempio l’acqua e l’energia. Sono temi che lei ha approfondito nelle sue ricerche, ci propone la sua interpretazione?

Un antico e sempre fondamentale motto di Hegel ci ricorda che la filosofia “è il proprio tempo compreso in pensieri“. Provare a capire il proprio tempo, in questo caso il nostro tempo, non è facile e ancora meno lo è trarne conclusioni. Possiamo però cercare di cogliere alcune tendenze e fenomeni chiaramente emergenti, provare a comprenderne origine e sviluppo possibile e, se necessario, a metterle in discussione. Fa sicuramente parte di questo novero quell’insieme di fenomeni che siamo soliti qualificare sotto l’etichetta di “cambiamento climatico”. Non possiamo più ritenere che il cambiamento climatico sia un problema secondario, un fenomeno a cui pensare solo se resta tempo e possiamo permetterci di collocare risorse economiche, politiche e culturali. No, è una delle, direi “la” sfida sistemica alla quale il nostro tempo, il nostro pianeta, il suo insieme biotico è consegnato a prendersi carico. Il cambiamento climatico, complessivamente compreso, riduce le possibilità delle generazioni attuali e di quelle future.

Dobbiamo abilitare un sentiment diverso da quello al quale spesso ci abbandoniamo. Non è sempre colpa di qualcun altro, che deve pensarci prima e che deve innanzitutto intraprendere azioni, prima e invece di me. L’aspetto sistemico della difficoltà di cambiamento climatico ci rimanda quasi paradossalmente a una domanda in prima persona: se è sempre qualcun altro, perché quel qualcun altro non potrei o non dovrei essere io?


In termini più icastici, cosa posso fare io rispetto al cambiamento climatico, partendo dalla funzione e ruolo sociale che ciascuno di noi ha? Tutti noi siamo inclusi e nessuno può pensarsi immune da tale destino del nostro tempo. E ciò a partire da una considerazione fondamentale e consolidata: il cambiamento climatico è frutto dell’azione umana, è l’uomo che ha contribuito e contribuisce a generarlo, nei secoli e in modo più accentuato negli ultimi anni. Ogni contributo umano aggiunge perciò qualcosa o può generare qualcosa: risparmiare emissioni, risparmiare risorse fondamentali come l’acqua, l’energia, anche con piccoli gesti, rappresenta qualcosa. È differente per ciascuno di noi e per ciascuno dei ruoli che noi occupiamo, ma nel compimento di ciascuno di quei ruoli fa la differenza.


Anche saper comunicare quel disagio e quell’urgenza ha un valore. Far sentire la propria voce suggerisce a chi governa che non ascoltare quelle esigenze e quei moniti significa silenziare, restare sordi e non saper interpretare i bisogni della società e del nostro tempo.


Discipline come la water ethics o l’energy ethics cercano di interpretare proprio queste domande. Confidiamo che siano ambiti sui quali aggregare un interesse sempre crescente e ancora più sistemico, per arrivare ad un livello di ascolto profondo da parte delle opinioni pubbliche e delle istituzioni che dovrebbero riuscire ad interpretarne al meglio i bisogni più profondi e condivisi.
Sottodeterminare il cambiamento climatico come impresa e compito anche per l’individuo significa infine arrendersi ad un fatalismo, ad un atteggiamento rinunciatario che ci abbandona a un esito chiaro e per molti aspetti indesiderabile: al fatto che nessuno farà nulla o tutti faranno sempre troppo poco per contrastare davvero la gravità della situazione.


La domanda vera alla fine è: “Se io posso fare qualcosa, perché non faccio ciò che posso?” La risposta è dentro ciascuno di noi, avvertibile in maniera chiara e forte, impossibile da ignorare. L’auspicio, che dobbiamo coltivare, nutrire, formare, con spirito critico e chiara motivazione etico-politica, è che da questa consapevolezza individuale nasca una coscienza collettiva, che quella coscienza si trasformi in un coro di voci, in una voce comune e condivisa. Una coscienza ambientale e climatica sempre più potente, diffusa, che esige di essere ascoltata.

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