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Primarie: cinque stili per cinque candidati

15/11/2012

Il recente dibattito che ha messo a confronto _Matteo Renzi, Pierluigi Bersani, Nichi Vendola, Bruno Tabacci_ e _Laura Puppato_ nel salotto televisivo di Sky ha evidenziato cinque approcci profondamente differenti dal punto di vista comunicativo. L’analisi di _Flavia Trupia._

di Flavia Trupia
Oratorie a confronto nel dibattito che si è svolto su Sky tra i candidati alle primarie del centro sinistra. I cinque sfidanti hanno affermato cinque diversi modi di usare l’arte del dire.
Matteo Renzi è il candidato che si è adattato meglio alla tirannia dei tempi previsti dal format messo a punto da Sky. Il sindaco ha confermato il suo stile che alcuni media hanno definito “americano”. Tra questi, il New York Times che ha sottolineato come Renzi si ispiri all’oratoria di Obama (An Italian-Style Obama on the Political Trail, 9 novembre 2012).
Come il presidente americano, Matteo è perfettamente a suo agio di fronte alla telecamera. Al contrario di Tabacci, che si rivolge al moderatore, Renzi le parla come fosse un’amica, le spiega il suo punto di vista. Ma il modello obamiano vira nettamente al made in Italy nella gestualità del sindaco. Al contrario di Obama, Renzi gesticola, si sbraccia, sottolinea i pensieri con la mimica facciale.
Come Obama, invece, è maestro di “sprezzatura”, l’arte di far sembrare facili le cose difficili, l’arte di fingere che la frase ad effetto o la battuta di spirito siano venute lì per lì, quando invece sono state preparate a tavolino e ripetute mille volte. Nell’appello finale del candidato, si ritrovano elementi comuni al discorso presidenziale di Obama della notte della vittoria.
Matteo come Barack fa riferimento alla bellezza della politica, introdotta con una nostrana citazione di Jovanotti:
“Sono un ragazzo fortunato […] perché mi hanno educato a vivere la politica come una cosa bella.” Renzi dixit.
“[La politica] Non è una piccola cosa. È importante. La democrazia in una nazione di 300 milioni di persone può essere rumorosa, disordinata e complicata […].Queste discussioni sono il segno della nostra libertà.” Obama dixit.
Ancora. Matteo come Barack si rivolge ai suoi figli: Francesco, Emanuele ed Ester stanno a Malia e Sacha. Inoltre, Matteo come Barack fa suo il tema del futuro, che gli permette di svincolarsi dalla fortunata ma limitativa espressione “rottamazione”:
“Io penso che sia di sinistra dire che il futuro può essere vissuto come un piacere, come una sfida, con coraggio. Allora, io lo faccio pensando ai miei tre figli: Francesco, 11 anni, che è un sostenitore – l’ho sempre detto – di Pierluigi [si gira verso Bersani]. Perché ha detto: ‘Io, babbo, non voglio che tu vada via. Quindi voto Bersani’. Ho fatto: ‘Guarda, anche se cambiano le regole non ti fanno votare. Stai tranquillo’. Per Emanuele che ha 9 anni e per Ester che ha 6 anni, e sogno che i miei figli pensino che per il loro babbo […] la politica è una cosa bella per cui vale la pena dedicare del tempo”.
Pierluigi Bersani, il favorito, non cede alla concitazione che suggerirebbe il count down mostrato alle sue spalle: parla lentamente, si concede le pause, cerca di spiegare, sfora anche perdendo qualche occasione. Usa espressioni quotidiane, come fosse al tavolo di un bar con un gruppo di amici. I verbi sono privi della vocale finale: “siam” “arrivar” “stan”.
Si serve di immagini per far vedere – oltre che sentire – il suo pensiero all’uditorio:
“Anche la Germania deve capire che siamo tutti su un treno. Lei è su un vagone più agevole. Qualcun altro su un vagone che comincia a somigliare a un carro bestiame, ma tutti andiamo verso il segno meno”.
Malgrado la sua innegabile cultura, cede al vezzo di qualche espressione colloquiale, quasi paesana, che lo fa apparire uno di famiglia: “’spetta”, “dammi un occhio”, “farina del demonio”:
“Se [un giovane] sta rinunciando a iscriversi all’università […] gli dico ‘spetta n’attimo che un po’ di soldi sul diritto allo studio bisogna assolutamente che li mettiamo.”
Sempre rivolto al giovane:
“Dammi un occhio e giudicami tra due-tre anni. Perché in 48 ore non si risolve questo problema.”
Infine, a proposito società partecipate:
“Il rapporto pubblico-privato è farina del demonio: o una cosa è pubblica o una cosa è privata.”
Nichi Vendola suda, ma trae giovamento dalla ristrettezza del format. Il profeta dell’ornamento stilistico guadagna concretezza, proprio grazie alla gabbia dei tempi imposti dalla trasmissione. Il count down gli impedisce di prendere la tangente, di accatastare definizioni, di costruire il concetto per riformulazioni successive. Certo, Vendola rimane pur sempre cintura nera di poesia, ma in una versione più terrena. Dimostra particolare efficacia su un tema che gli sta a cuore, come i diritti alle coppie omosessuali.
L’argomentazione è sottolineata dall’espressione biblica “è il tempo”:
“Secondo me oggi è il tempo di chiedere diritti interi, non frammenti di diritto” non “diritti con il contagocce”.
Un’eco del famosissimo “I have a dream” del reverendo King. Non manca, tuttavia, il tipico vendolese: i “tagli” sono “feroci”, i “Beni culturali” sono “feriti” e “scheggiati”, il “maschio” è “femminicida” e “proprietario”.
Nell’appello finale esorcizza la sua fama di sognatore, bilanciandola con la concretezza indispensabile nella sua esperienza di presidente di Regione:
“Per me che sono stato tutta la vita un acchiappanuvole, ma ho governato una grande regione del Sud, oggi vorrei guardare e sognare a occhi aperti un’Italia davvero migliore”.
Bruno Tabacci fa della concretezza il suo tratto distintivo. Alla domanda “Cosa direbbe a un giovane che cerca lavoro?” risponde:
“Intanto io starei lontano dalle promesse. Cercherei di fare dei ragionamenti che siano convincenti […]. Il lavoro non si crea per decreto […]. Bisogna allargare la base produttiva.” Smonta il populismo renziano che vorrebbe un governo ridotto ai minimi termini, sottolineando che “un governo con dieci ministri non sta in piedi.”
Cede, invece, a un linguaggio emotivo sul tema delle coppie gay, mettendo in scena una personalissima narrazione come tecnica persuasiva:
“L’estensione dei diritti è fuori discussione. Mi pare una cosa umana, profondamente vera. […] Sono molto attento al tema dei bambini. Perché anch’io sono stato bambino e sono stato giovanissimo orfano di padre e a scuola mi consideravo un diverso perché avevo solo la firma di mia mamma. I bambini hanno il diritto di avere un padre e una madre.”
È un monito: la famiglia cattolica come riferimento sociale, non si tocca.
Laura Puppato è la candidata meno avvezza alle ribalte mediatiche. Ciò nonostante ha dimostrato una certa scioltezza e solidità del dire. Degno di nota l’appello finale, nel quale ha usato un classico della retorica: la preterizione. Una figura che consiste nel dichiarare che si eviterà di parlare di un argomento, nel momento stesso in cui se ne parla.
“Vorrei chiedervi il voto perché questo Paese è 65 anni che non considera possibile che alle massime cariche dello Stato ci sia una figura femminile, ma non lo farò. Lo farò perché sto cercando di rappresentare un’altra idea di paese […]. Il mondo che vorrei proporre è un mondo in cui i giovani non sono costretti a emigrare, le donne a scegliere tra maternità a lavoro, gli anziani non siano ai margini del welfare.”
L’uso della preterizione suggerisce che la Puppato non vuole farsi ingabbiare dal vicolo cieco delle pari opportunità, ma non vuole allo stesso tempo rinunciare al potere innovativo che comporta essere donna nel panorama politico italiano e mondiale. Non a caso, è l’unica signora tra i fantastici cinque.
Fonte: Huffington Post

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