Semplificare il linguaggio
22/03/2010
Cosa vuol dire semplificare il linguaggio per chi, come i relatori pubblici, non crea messaggi ma contenuti? Una riflessione di Toni Muzi Falconi alla luce dei vivaci confronti in corso sulle pagine di questo sito ed in vista degli Accordi di Stoccolma di giugno, che rappresenteranno un nuovo manifesto globale sulle Relazioni pubbliche.
di Toni Muzi Falconi
Un commento di Cristina Mariani in una recentissima discussione su questo sito in merito alle relazioni pubbliche per le piccole imprese
insieme ad alcuni episodi che mi sono capitati in queste ultime settimane, mi hanno stimolato a scrivere questa nota che è, al tempo stesso:
una franca ammissione di difficoltà intellettuale a trovare una via di uscita ragionevole e operativa;
un caloroso invito a colleghi, studenti o semplici visitatori ad aiutarmi ad uscire dall’impasse.
La questione ha a che fare con una delle abilità cuore della nostra professione: quello di saper scrivere per farsi capire dagli altri e stimolare discussione e relazione.
Non è certo un tema nuovo e so bene che, anche nella nostra comunità professionale nazionale, vi sono fior di maestri. Così come so bene che gran parte delle cose che scriviamo servono ad altro (nella migliore delle ipotesi a riempire degli spazi che altri potrebbero altrimenti occupare…).
Ed è per questo che mi rivolgo a voi da questo sito che so che talvolta leggete.
Cristina Mariani ci invita a semplificare il linguaggio.
Queste identiche parole, ma in lingua inglese, sono state il leit motiv ripetuto e ripetuto della seconda e conclusiva sessione di workshop in videconferenza digitale sincrona su piattaforma webx/cisco/connexia del 15 marzo cui hanno partecipato una quarantina fra studiosi e professionisti leader e senior di 18 paesi, che ho coordinato a nome della Global Alliance per scrivere la prima bozza degli Stockholm Accords: testo che fra pochi giorni sarà tradotto in italiano e postato proprio su questo sito.
Come i lettori più attenti sanno, è da parecchio tempo ad esempio che mi sforzo per eliminare dal vocabolario dei relatori pubblici (dopo averne abusato anch’io per una quarantina di anni..) il termine ‘messaggio’, per sostituirlo con quello di ‘contenuto’.
Anche uno dei guru americani dei social media Brian Solis dedica un intero capitolo alla stessa cosa nel suo Putting Public back into Public Relations.
Infatti come lo scrivere bene argomentando ‘contenuti’ per loro natura quasi sempre complessi (e non necessariamente complicati…) costituisce uno dei maggiori valori del nostro lavoro, la capacità di ridurre a sintetici messaggi evocativi ed emozionali le promesse di una idea, di un prodotto o di un servizio rappresenta uno dei valori maggiori del lavoro dei pubblicitari. Sono entrambi professioni dignitose, ma diverse.
Sono peraltro pienamente consapevole della differenza fra il concetto di complessità e il significato di ‘complicazione’… ne parlo spesso con i miei studenti e anche con i miei collaboratori.
In sostanza mi chiedo come – oltre alla ovvia, ma terribilmente importante e difficilmente applicabile, considerazione che prima di trasferire ad altri un contenuto che presumiamo sia di loro interesse bisogna ascoltarli anche (ma non solo) per comprendere come potrebbero interpretarlo (il Gorel sanziona questo passaggio dirimente in modo decisivo con il pre – test fin dalla sua prima versione del 1986) –
e la consapevolezza che l’efficacia di una comunicazione dipende anche in larga parte dalla familiarità e dalla credibilità del contenuto… detto tutto questo… e riprendo… come cavolo mi oriento per elaborare contenuti con modalità chiare e comprensibili per soggetti specifici e non generici, e trasferire questi contenuti per attirare attenzione e stimolare conversazione e comprensione (non necessariamente consenso…) e non, come dicevo prima, solo per il gusto di riempire uno spazio o di parlare a vuoto…?
Ah…saperlo…
Certo, seguendo il saggio suggerimento di Cristina, il relatore pubblico che si proponga di rapportarsi con i piccoli imprenditori della sua rete diretta o indiretta di relazioni farà bene, ben prima di mandare le sue lettere, di predisporre la sua presentazione, di chiedere un appuntamento… a partecipare a qualche riunione presso l’Api o l’associazione degli industriali per capire e familiarizzarsi con il linguaggio e le tematiche del momento, così come farà bene a leggersi con attenzione i siti web sia dei suoi potenziali interlocutori che quelli dei loro concorrenti e farà bene a leggersi attentamente la stampa locale e via dicendo.
Tutto questo (e so di essere ottimista) lo do per scontato.
E’ il passo successivo, quello di mettersi a scrivere, a parlare o a telefonare che mi pare salti un passaggio indispensabile. Nel Gorel, come dicevo, c’è il pre – test, ma in una azione tesa a creare una relazione one with one (e non one to one) come faccio a fare il pre – test?
E poi come posso eliminare la complessità se l’argomento lo è?
Riduco il processo alle sole coordinate che lo tengono in piedi lasciando perdere quel che c’è intorno, le cause e le conseguenze? Ma perché il piccolo imprenditore dovrebbe essere interessato a conoscere quello che abbiamo in mente e come facciamo il nostro lavoro? A lui interessa, e giustamente, soltanto il risultato. Se poi è curioso facciamo uno sforzo per spiegarglielo, ma soltanto dopo averne intuito l’interesse reale.
Forse la cosa essenziale è che noi stessi non siamo convinti che il nostro approccio funziona davvero e quindi ci sforziamo di farglielo capire prima di attuarlo per precostituirci un alibi qualora non funzionasse (ma te lo avevo spiegato e tu non mi hai detto nulla, anzi hai detto che ero d’accordo…).
L’implicazione è che dobbiamo essere, noi per primi, maledettamente sicuri di quel che proponiamo.
Che ne dite?