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Siciliotti (Commercialisti): professioni e relazioni socio-economiche

23/11/2009

Le professioni rappresentano un nodo cruciale nelle relazioni socio-economiche. Lo sostiene il presidente dell’Ordine dei Commercialisti, Claudio Siciliotti, team leader della categoria Piccole e Medie Imprese dell’Oscar di Bilancio, di cui riproponiamo l’intervento di apertura all’ultimo congresso nazionale.

di Claudio Siciliotti


Le relazioni socio-economiche del nostro paese si sono sempre più polarizzate su tre attori: la grande politica, la grande impresa e il grande sindacato. Tre attori fondamentali, la cui indiscutibile centralità non avrebbe per dovuto tradursi nella sostanziale marginalizzazione di altri tre soggetti che sono invece indispensabili nella loro complementarietà, se l’obiettivo non è quello di avere un paese immobile, bensì un paese stabile nella sua dinamicità. Questi altri tre attori troppo spesso marginalizzati sono la piccola e media impresa, l’università e le libere professioni.


La piccola e media impresa è la fucina dell’innovazione: un paese che non sa aiutare un piccolo a diventare grande e sa soltanto aiutare un grande a rimanere tale, costi quel che costi alla collettività, è un paese fermo e che tale rimarrà.


L’università è la fucina del sapere: un paese che non vede nell’università il primo dei luoghi ove devono primeggiare merito e capacità, per poi trasfondere questo approccio anche in tutti gli altri settori in cui entrano le persone formate in questo modo, è un paese destinato a fondarsi sulla collusione relazionale e sulla tutela dei diritti acquisiti.


Le libere professioni sono coloro che applicano i saperi e interfacciano la pubblica amministrazione con cittadini e imprese: un paese che marginalizza nelle sue dinamiche sociali proprio chi è al centro dei rapporti e delle relazioni individuali è un paese che ha completamente perso le coordinate di navigazione interna.


Senza certo ridimensionare la centralità dei primi tre soggetti, il mondo della piccola e media impresa, quello dell’università e quello delle libere professioni hanno il preciso obbligo morale di rivendicare l’attenzione che è loro dovuta.


Non per chiedere da sindacalisti incentivi fiscali, soldi pubblici da sperperare o riserve ed esclusive di attività, ma per offrire da parti sociali attive il proprio indispensabile contributo alla ripartenza non soltanto economica del paese.


È proprio dalla consapevolezza dell’attuale assetto delle relazioni sui cui si fondano le dinamiche socio-economiche del paese che nasce l’immagine delle libere professioni ridotte a «quarto stato».


Come si arriva alle libere professioni «quarto stato»?


Il «primo stato», quello attorno al quale oggi tutto ruota è la politica. È del tutto normale che la politica sia il mozzo della ruota attorno al quale tutto il resto gira; quello che per è anormale è che essa non si limiti a svolgere il suo ruolo di collante sociale, ma sia al tempo stesso conciliatore e parte in causa, arbitro e giocatore.


Questo è il frutto di un apparato statale e di un sottobosco di falso privato a partecipazione pubblica che rende davvero troppo ampia la schiera di persone che in Italia vivono di politica: vuoi perché ricoprono direttamente ruoli politici remunerati, vuoi perché ricoprono ruoli dirigenziali la cui assegnazione dipende in via esclusiva da logiche di appartenenza politica.


È in questo modo che la politica, la cui funzione dovrebbe essere quella di sintetizzare e rappresentare le diverse anime sociali che compongono il paese, diviene essa stessa una parte sociale che si preoccupa di ampliare gli spazi e rafforzare le prerogative del suo popolo: non quello dei cittadini, ma quello di coloro che vivono di politica.


Il «secondo stato» è rappresentato dalla grande impresa e dai grandi sindacati del lavoro dipendente. Sono gli interlocutori naturali cui si rivolge una politica non più mediatrice di interessi, ma portatrice essa stessa di interessi di conservazione ed espansione del suo proprio popolo. La loro centralità in un corretto assetto di relazioni socio-economiche è indiscutibile, ma quello che li porta a essere addirittura interlocutori pressoché unici è proprio la deriva sbagliata di conservatorismo che può affascinare e irretire solo una politica ormai incapace di svolgere il suo ruolo di guida, perché consapevole di essere ormai pi simile anch’essa a un passeggero di prima fila che conta sull’appoggio di chi sta davanti insieme a lui per tacitare sul nascere ogni ipotesi di riassegnazione di posti e mobilità sociale.


Il «terzo stato» è rappresentato dalla piccola e media impresa. Essa è quanto meno inserita a pieno titolo nell’immaginaria assemblea nazionale che racchiude le parti sociali riconosciute come tali e ascoltate come tali.


Ecco che così si arriva alle libere professioni «quarto stato». Rispetto alla piccola e alla media impresa, esse non beneficiano nemmeno, nella considerazione dei poteri forti e nell’immaginario di una certa parte di pubblica opinione, del riconoscimento di parte sociale viva e fondamentale per questo paese.


Questo perché si ritiene ancora oggi che i liberi professionisti siano più che altro dei privilegiati e che pertanto il metro di misura per confrontarsi con loro non sia quello della condivisione degli obiettivi per il miglioramento del paese, ma quello della tutela o dell’abbattimento del privilegio di cui godono.


Troppi ancora nel paese si pongono rispetto alle libere professioni come amici che vogliono garantire loro la preservazione di privilegi reali o presunti, oppure come nemici che quei privilegi veri o presunti vogliono abbattere. Gli oltre 110mila commercialisti italiani non vogliono essere considerati né amici da blandire, né nemici da abbattere, ma soltanto cittadini da ascoltare per quello che possono dare al paese. Il paese non ci sentirà mai parlare di ruoli, ma soltanto di funzioni e competenze.


Quando lodiamo le virtù di istituti di conciliazione o mediazione preventiva per ridurre lo stato di paralisi in cui versa il sistema della giustizia italiana, non partiamo dal presupposto che il conciliatore o il mediatore debba essere per forza un commercialista, ma partiamo dal presupposto che, se lo scopo è davvero fare una riforma per il paese e non per interessi particolari, il conciliatore o il mediatore debba essere per forza un soggetto cui lo stato riconosce espressamente competenza in ragione della materia del contendere.


Quando sottolineiamo l’importanza del modello di governance italiano basato sul collegio sindacale e la progressiva presa di coscienza della sua validità anche dalla comunità scientifica internazionale, non partiamo dal presupposto che il sindaco debba essere per forza un commercialista, ma partiamo dal presupposto che, se lo scopo è davvero garantire adeguata tutela ai soci e ai terzi sulle modalità gestionali della società e sull’informativa finanziaria, il sindaco debba essere per forza un soggetto cui lo stato riconosce espressamente competenza in materia aziendalistica, giuridica e contabile.


La nostra forza sono le nostre competenze, quello che lo stato stesso riconosce che sappiamo fare.


Un paese fondato su ruoli nominalistici e rendite di posizione è l’antitesi di una professione come la nostra che non si basa su esclusive, bensì solo sul merito, inteso sia nella sua accezione di capacità sia nella sua accezione di sostanza che i contrappone alla pura forma.


Tratto da Il Sole 24 Ore
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