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Tre rischi professionali per il relatore pubblico

31/01/2006

Stakeholder compiacenti, autoriferimento, lontananza dalla realtà: ecco tre rilevanti rischi professionali per il relatore pubblico che intraprende con serietà e sobrietà un ruolo strategico e riflettivo. Un corsivo di Toni Muzi Falconi.

Conversando l'altro giorno con un collega assai competente, esperto ed attento lettore di quel che pubblica questo sito, mi è stata mossa una obiezione di fondo, affatto peregrina, che suona così:tu insisti, quasi maniacalmente, per una precisa e puntuale identificazione - al limite della singola persona - degli stakeholder sostenendo, e non a torto, che la nostra accountability rispetto al cliente/datore di lavoro si basa anche su un attento e mirato uso delle risorse disponibili e che la nostra responsabilità sociale si basa anche (ma di sicuro non solo) sulla nostra capacità di ridurre quello che tu chiami l'inquinamento comunicativo. Ma questa sottolineatura, che a naso appare sensata, produce però il serio rischio che una eccessiva attenzione alla selezione degli stakeholder ci porti, anche involontariamente, all'autoriferimento. Mi spiego: dovendo e volendo restringere il numero dei miei interlocutori, finisco inevitabilmente e perfino inconsapevolmente per concentrarmi su quelli più affini' e mi allontano dalla realtà...'.Che ne dite?A me pare un ragionamento realistico e intelligente. E allora, come rispondere?Ci provo, recuperando anche l'ottimo lavoro della Patricia Parsons con tre osservazioni:- l'etica della professione (o se preferite la responsabilità professionale), che ci richiama ad essere il più possibile obiettivi nella identificazione degli stakeholder evitando ogni compiacimento. E questo, non perché sia bene' o buono' comportarsi così& ma perchè l'eventuale distacco dalla realtà diminuisce di fatto le nostre chances di venire vissuti dalla coalizione dominante nella nostra dimensione strategico-riflettiva. La dimensione che ci assegna il compito di ascoltare e contribuire ad alimentare il dialogo-con i soggetti sui quali produciamo conseguenze e/o che producono conseguenze su di noi, attivando i canali più funzionali alla realizzazione della strategia organizzativa, interpretando le loro aspettative e assicurando che della interpretazione si tenga conto nella definizione degli obiettivi perseguiti dalla nostra organizzazione;- l'etica dell'organizzazione, che richiede a ciascun responsabile di funzione, e quindi anche al relatore pubblico, di agire sempre nel pieno interesse dell'impresa per cui si lavora. E tutta l'esperienza dimostra che l'auto riferimento finisce sempre comunque per produrre conseguenze negative (su questo punto si vadano a rileggere le illuminanti considerazioni dello svedese Sven Hamrefors che abbiamo pubblicato recentemente);- l'etica personale, che ovviamente è del tutto e liberamente soggettiva, ma che non può comunque prescindere da qualche paletto, uno dei quali è sicuramente quello di evitare il masochismo e l'auto presa in giro.Detto questo, non v'è dubbio che la meticolosa, informata e attenta selezione e continua revisione degli stakeholder costituisce uno degli aspetti cruciali del nostro lavoro quotidiano.Solamente partendo dal presupposto che gli stakeholder sono loro a decidere di esserlo (almeno quelli attivi: coloro cioè che sono consapevoli to hold a stake nell'organizzazione esprimendo interesse a dialogare, anche conflittualmente, con essa) si può evitare il rischio di quella 'discrezionalità verso gli affini' paventata dal mio interlocutore. In più è importante potersi attrezzare per saper cogliere precocemente la nascita di nuovi stakeholder, se possibile prima che si consolidino e si mettano in condizioni di produrre conseguenze su di noi fuori dal nostro governo' consapevole, sobrio e intelligente.Naturalmente, questo non può (e non deve) implicare che i sistemi di relazione con tutti gli stakeholder debbano essere simili; ed è non soltanto normale, ma anche giusto - dal punto di vista dell'efficienza e dell'efficacia professionale - che per ciascun segmento (unità?) il relatore pubblico sviluppi percorsi e modelli di dialogo diversi in funzione di differenti variabili (peso, rilevanza, disponibilità&) una delle quali non potrà non essere le posizioni espresse rispetto alle finalità e agli obiettivi perseguiti dall'organizzazione.Per capirci meglio, l'asimmetria informativa, differenti dimensioni nella cooperazione e nella co-progettualità, una variabile frequenza nelle relazioni e così via&. rientrano nella piena responsabilità decisionale di chi è delegato a presidiare la funzione, che dovrà risponderne soltanto ai suoi superiori ( o elettori) in chiave di una corretta interpretazione delle aspettative di coloro dai quali può dipendere il raggiungimento o meno degli obiettivi perseguiti.Mi preme anche un ulteriore chiarimento connesso a questo ragionamento che mi pare importante e di cui forse può essere utile tenere conto: in un recente articolo di Giorgio Meletti sul Corriere Economia a proposito delle vicende DS-Unipol, l'autore - secondo me impropriamente - contrappone la strategia delle relazioni alla strategia dei contenuti.Non vorrei contribuire ad ingenerare equivoci imbarazzanti: in nessun modo il 'governo delle relazioni', che auspico diventi davvero il fulcro del nostro lavoro professionale, può essere perseguito in assenza di contenuti. Quando una organizzazione persegue il primo prescindendo dai secondi ritorna immediatamente a percorrere quella ingegneria del consenso, quella manipolazione, diciamolo pure: quella propaganda e quella politica dell'immagine che è quanto più possibile lontano da quel che la migliore letteratura e la migliore pratica oggi considerano efficaci relazioni pubbliche.O no? Che ne pensate?
tmf
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