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L'era del monologo planetario #4. Un 25  aprile lungo ottant’anni.

24/04/2025

Daniela Bianchi - Segretaria Generale FERPI

Se l’80° serve solo a contare gli anni, sarà solo un compleanno. Se invece ci interroga su che cosa significhi oggi essere partigiani, allora resta viva l’eredità di chi provò a ridisegnare il Paese.

 

Il rischio degli anniversari tondi è quello di “imbalsamare” la memoria. L’80° della Liberazione non fa eccezione, discorsi ufficiali, corone e inni, tutto pronto per una celebrazione che quest’anno deve attenersi alla sobrietà, visto il richiamo dovuto al lutto nazionale per la morte del Santo Padre Francesco. E come ogni anno, con l'avvicinarsi del 25 aprile, si riaccende in Italia il dibattito sulla Resistenza e sul significato di questa ricorrenza.

 

La mia riflessione parte però da alcune domande. Cosa significa, oggi, essere "partigiani"? Cosa vuol dire "prendere parte", "essere di parte" in un'epoca in cui le ideologie novecentesche sembrano aver perso la loro forza propulsiva? È ancora questa una "stagione di esercizio di libertà", come lo fu quella della Resistenza? E cosa celebriamo, realmente, quando commemoriamo il 25 aprile?

  

Il termine "partigiano" deriva dal latino "pars" (parte) e indica colui che prende parte, che si schiera. Attraversa il medioevo e l’italiano antico e il suffisso “igiano” ne sottolinea l’appartenenza.  Prima ancora di indicare i combattenti della Resistenza, designava chiunque si schierasse. Non un romantico eroe, dunque, ma uno che sceglie e, scegliendo, si espone.

  

Nella società contemporanea, caratterizzata da una crescente complessità e da una apparente frammentazione delle appartenenze, cosa significa "prendere parte"? Prendere parte implica decidere che il mondo, così com’è, non ci basta. Significa interpretare la realtà non da osservatori neutri bensì da soggetti responsabili. Eppure la contemporaneità sembra oscillare fra due estremi: l’iper‑partigianeria da social network, dove ci si arruola in curve digitali senza pagare pegno, e l’apatia del «tanto non cambia nulla». In mezzo, un vuoto di impegno civico tangibile: astensionismo, sfiducia, delega passiva. Forse non abbiamo smesso di scegliere da che parte stare; abbiamo smesso di pensare che la scelta abbia conseguenze.

 

Nel 1945 il nemico era identificabile: un esercito occupante, un regime.

 

Oggi i «nemici» sono più sfumati: diseguaglianze, precarietà climatica, algoritmi opachi, discriminazioni sistemiche. Essere partigiani nel 2025, in un'epoca in cui le grandi narrazioni ideologiche sembrano aver perso la loro capacità di mobilitazione, l'impegno civile potrebbe assumere forme nuove e diverse, esercitare consapevolmente la propria cittadinanza, partecipare attivamente alla vita democratica, non delegare ad altri le scelte che riguardano il bene comune, per assumere la responsabilità delle proprie azioni e delle loro conseguenze globali, in un mondo sempre più interconnesso.

 

La domanda non è «se» prendere parte, ma a favore di chi: delle generazioni future? Di chi non ha voce?

 

Rileggere la storia della Resistenza nella sua complessità, al di là delle semplificazioni e delle mitizzazioni può essere un esercizio utile. Sappiamo che la Resistenza italiana, nel quadro della più ampia lotta europea contro il nazifascismo, ebbe origine dal disastro provocato dalla Seconda guerra mondiale, e diede all'Italia l'opportunità di liberarsi del peso di un ventennio di dittatura.

 

Ma sappiamo anche che la Resistenza fu un fenomeno complesso, che può essere letto su più livelli, come guerra di liberazione contro gli occupanti nazisti, come conflitto civile contro i collaborazionisti italiani che aderivano alla RSI, e come scontro sociale in cui molti si battevano per un avvenire più giusto ed egualitario.

 

Una cosa è certa, a 80 anni di distanza il 25 aprile continua a rappresentare una data controversa, nonostante sia una festa nazionale, istituita per commemorare la liberazione dell'Italia dall'occupazione nazista e dal regime fascista.

 

La verità è che l'Italia non è mai riuscita a costruire una memoria pienamente condivisa di quel periodo storico, a differenza di altri paesi europei che hanno invece fatto i conti con il proprio passato. Nel pantheon resistenziale convivono episodi di altruismo epico e pagine di faide, vendette sommarie, errori tattici. Mettere in luce queste zone d’ombra non relativizza la Resistenza, la rende umana e dunque esemplare. Così come la "narrazione autoassolutoria", che ha evitato un'analisi critica e approfondita del ventennio fascista, del consenso di cui godette il regime e delle pagine più buie, per perpetuare il mito degli "italiani brava gente". Si è costruita una vulgata che ha tramandato sostanzialmente la storia di un Paese che, dopo una parentesi oscura, aveva vinto la guerra, alleandosi, anche se in ritardo, con le democrazie occidentali. Perdendo l’occasione di un racconto adulto, in grado di riconoscere che la democrazia nasce da scelte imperfette e conflitti reali, e di lasciare un messaggio fondamentale e cioè che la moralità politica è un terreno da coltivare, non un dono garantito.

 

La democrazia contemporanea, che dovrebbe essere il sistema politico garante delle libertà individuali e collettive, appare oggi, di nuovo, in crisi su più fronti. Questa crisi si manifesta sia sul piano del funzionamento delle istituzioni democratiche (istituzioni di governo ai diversi livelli, parlamenti, partiti), sia sul piano del coinvolgimento popolare nei processi decisionali ed elettorali (astensionismo e disaffezione), sia sul piano della sua anima etico-culturale e l'esercizio della libertà assume connotazioni nuove e complesse.

 

Ma si può pensare di accontentarsi che una democrazia sia imperfetta? Di accontentarsi di una democrazia a "bassa intensità"? Si può pensare di arrendersi, "pragmaticamente", al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della "cosa pubblica"? Può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori?

 

I diritti si avverano attraverso l'esercizio democratico. Se questo si attenua, si riduce la garanzia della loro effettiva vigenza. Democrazie imperfette vulnerano le libertà, là dove si manifesta una partecipazione elettorale modesta, oppure là dove il principio "un uomo-un voto" venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori. Ancor più le libertà risulterebbero vulnerate ipotizzando democrazie affievolite, depotenziate da tratti illiberali.

 

Per questo credo nella necessità di un Comunicazione Partigiana (ne avevo già parlato qui).

 

Nel contesto contemporaneo, dominato da social media, fake news e polarizzazione del dibattito pubblico, la comunicazione, nel suo senso più autentico, può essere considerata intrinsecamente "partigiana" perché implica sempre una scelta: di contenuti, di linguaggio, di prospettiva.

 

Non esiste una comunicazione neutrale o puramente oggettiva, poiché ogni atto comunicativo comporta una selezione e un'interpretazione della realtà. Comunicare significa sempre, in qualche misura, "prendere parte", scegliere cosa dire e cosa tacere, quali aspetti della realtà mettere in luce e quali lasciare in ombra.

 

In questo senso, la comunicazione è sempre un atto di posizionamento, che implica una responsabilità etica e politica.

 

Come l'essere partigiani durante la Resistenza significava fare una scelta chiara e netta tra libertà e oppressione, così oggi comunicare in modo autentico significa scegliere tra verità e manipolazione, tra complessità e semplificazione, tra dialogo e propaganda.

 

Andare oltre gli slogan e le definizioni assolutorie significa riconoscere che la comunicazione richiede lo stesso coraggio che caratterizzava l'essere partigiani, di prendere posizione, di assumersi la responsabilità delle proprie parole, di rifiutare le semplificazioni e le banalizzazioni.

 

Prendere posizione in difesa di valori fondamentali come la verità, la dignità umana, la libertà. Rifiutare le semplificazioni e le polarizzazioni estreme. Riconoscere la complessità della realtà e la pluralità delle prospettive. Assumere la responsabilità delle proprie parole e delle loro conseguenze. Stimolare una riflessione critica anziché imporre verità preconfezionate.

 

E anche questo può rappresentare una forma di resistenza contemporanea. Resistere alla semplificazione eccessiva, alla banalizzazione del linguaggio, alla strumentalizzazione delle parole significa difendere lo spazio pubblico come luogo di confronto democratico, di dialogo autentico, di costruzione condivisa di significati.

 

Come i partigiani resistevano all'oppressione nazifascista, così oggi possiamo resistere all'impoverimento del linguaggio, alla sua riduzione a strumento di manipolazione e di divisione, alla sua perdita di profondità e di complessità. È un modo per fare della comunicazione non uno strumento di manipolazione o di divisione, ma un mezzo per costruire ponti di comprensione e di dialogo.

 

E allora, forse, una risposta di senso è possibile alle domande poste in premessa.

 

Essere partigiani oggi significa innanzitutto riconoscere che la libertà non è un bene acquisito una volta per tutte, ma una condizione che va costantemente difesa e rinnovata attraverso l'impegno civile e la partecipazione democratica.

 

Significa anche avere il coraggio di prendere posizione di fronte alle sfide del nostro tempo, la crisi della democrazia, le crescenti disuguaglianze, i cambiamenti climatici, le guerre, le migrazioni, le discriminazioni, una posizione attiva, basata su principi e valori fondamentali come la dignità umana, la giustizia, la solidarietà, la pace.

 

In un'epoca caratterizzata dalla frammentazione sociale e dalla crisi delle appartenenze tradizionali, essere partigiani significa anche costruire nuove forme di comunità e di partecipazione, capaci di rispondere ai bisogni di identità e di appartenenza senza cadere nelle trappole del nazionalismo, del populismo, dell'intolleranza.

 

"Resistere alla violenza, all'ingiustizia, a tutto ciò che i totalitarismi di ogni specie portano inevitabilmente con loro" è un imperativo morale che va al di là delle contingenze storiche e politiche. È questo il nucleo sempre valido e trasmettibile di ogni resistenza, ed è da questa responsabilità morale che dobbiamo ripartire per non relegare questi 80 anni all’angolo della storia, il coraggio di prendere parte. Un coraggio che, oggi come ieri, rappresenta la migliore eredità della Resistenza.

 

Il 25 aprile ci ricorda che la libertà è in stato di "non ancora", resta un progetto aperto, da alimentare con anticorpi quotidiani come l’educazione civica digitale, il fact‑checking diffuso, la difesa delle minoranze. Libertà che non è la licenza di fare tutto, ma è lo spazio che costruiamo perché ogni persona possa fiorire. L’articolo 3 della Costituzione chiede alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che limitano l’uguaglianza (equità è termine che preferisco) sostanziale. Finché quegli ostacoli restano, la Resistenza non è finita. Essere partigiani, nel 2025, vuol dire non accontentarsi di indignazioni lampo, ma investire tempo, competenze, creatività in un progetto collettivo di libertà. Non per nostalgia, ma per necessità.

 

Ottant’anni dopo, la domanda resta la stessa: da che parte vuoi stare?

 


 

Foto di Hashim Badani

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