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Vedi alla voce “rumor”

28/06/2013

Le dicerie sono sempre esistite e, talvolta, sono state così potenti da avere alimentato alcuni dei fenomeni sociali più importanti del passato. Nell’era del web, le voci, o meglio i rumor, trovano un terreno fertile in cui crescere e diffondersi perché la rete è in grado di amplificarne la portata. L’analisi di _Andrea Ferrazzi._

di Andrea Ferrazzi
Verso la fine degli anni Sessanta del Novecento, in Francia si diffuse una “voce” secondo la quale nei camerini di alcuni negozi di abbigliamento a Orléans scomparivano ignare ragazze, rapite per essere avviate alla tratta delle bianche. Un caso, questo, che catturò anche l’attenzione di Edgar Morin, che lo analizzò, da un punto di vista sociologico, nel suo Medioevo moderno a Orléans, libro pubblicato nel 1969. Quella “voce” sembra resistere ancora oggi, sia pure attualizzata, rivista e corretta: i negozi non sono più quelli gestiti dai musulmani, bensì dai cinesi. E la tratta delle bianche è diventata il commercio di organi. In un altro paese e in un altro continente, la Procter&Gamble, una delle più importanti industrie americane di largo consumo, dal 1981 riceve ogni mese telefonate di consumatori preoccupati che chiedono se davvero la società abbia rapporti con Satana. Storie diverse, apparentemente incredibili, che però rientrano nello stesso fenomeno: quello delle “voci che corrono”, i rumors. Che non sono esattamente né dicerie, né pettegolezzi, né indiscrezioni. Sono qualcosa di più, e di diverso.
A questo tema Jean-Noel Kapferer, ha dedicato uno studio che è considerato, a ragione, un’opera fondamentale per tutti coloro che si occupano di comunicazione. Il libro risale al 1987, ma è stato ripubblicato lo scorso anno da Armando Editore, con un’introduzione di Laura Minestroni, che ne evidenzia la sua attualità «in un’epoca come la nostra, in cui la frammentazione dei media e la socialità discorsiva introdotta dalle nuove tecnologie hanno generato un inedito protagonismo della comunicazione orizzontale e delle conversazioni tra utenti». Ed è proprio alla luce di queste trasformazioni che vanno lette le analisi dello studioso francese. Alcune delle caratteristiche che contraddistinguono i rumors trovano, per così dire, un ambiente ideale proprio nella rete, dove possono propagarsi e rafforzarsi in modo più significativo rispetto all’epoca, non molto lontana, in cui si diffondevano solo attraverso il passaparola vis-à-vis. «I rumors, le dicerie – scrive Cass Sunstein nel suo Voci, gossip e false dicerie, uscito da Feltrinelli – sono vecchi quanto la storia dell’uomo. Ma con la nascita di Internet sono diventati onnipresenti. Ne siamo sommersi. Le voci false e infondate sono particolarmente moleste, provocano un danno morale a individui e istituzioni e spesso sono refrattarie alle correzioni. Possono minacciare carriere, programmi politici, funzionari pubblici e a volte la democrazia stessa. Le dicerie che hanno più ampia diffusione riguardano spesso personaggi famosi della politica e dello spettacolo. Altre colpiscono aziende grandi o piccole. Ma capita anche che coinvolgano comuni e ignoti cittadini. Tutti siamo vittime potenziali delle dicerie, anche di quelle false e maligne».
Ma cosa sono, i rumors? Per Jean-Noel Kapferer, si possono chiamare rumors «la comparsa e la circolazione nel corpo sociale di informazioni, siano esse ancora non confermate pubblicamente da fonti ufficiali, oppure smentite da queste». Da questa definizione emergono già alcuni aspetti interessanti. Innanzitutto si evince, ma lo studioso francese lo dice espressamente, che i rumors non sono necessariamente falsi: se così fosse, non avrebbero alcuna rilevanza. Invece ne possono avere, eccome. Lo dimostra, ad esempio, quanto accaduto alla McDonald’s tra il 1978 e il 1982. In questi anni la nota catena di ristoranti è oggetto di un rumor che l’accusava di mescolare lombrichi alla carne degli hamburger. Incredibile? Ai nostri occhi, forse. In realtà questa “informazione” è stata creduta ed è quindi circolata tra i consumatori, perché esprimeva, sia pure in modo metaforico, l’ansia crescente degli americani nei confronti delle loro abitudini alimentari. «Il rumor – scrive Jean-Noel Kapferer – esprime il risentimento di una parte dell’opinione pubblica nei confronti di un’impresa la cui identità appare fondata su un prodotto ormai riconosciuto come non equilibrato, dunque squilibrante». Ma si potrebbe citare un altro esempio, di tutt’altra natura, che Jean-Noel Kapferer non riporta nel libro. Pensiamo alla crisi monetaria che colpisce la Germania negli anni Venti del secolo scorso: in quel manicomio finanziario – come ricorda tra gli altri anche lo storico Adam Fergusson nel suo bellissimo Quando la moneta muore, recentemente ripubblicato da Neri Pozza – il popolo tedesco rimane inebetito e traumatizzato, non riuscendo a capire che cosa stia accadendo e chi sia il nemico da combattere. E mentre nemmeno il linguaggio riesce più a trovare i termini per evocare la gravità degli eventi, si diffonde il rumor che la responsabilità sia degli ebrei. Come nel caso di McDonald’s, questo rumor, ragionevolmente non credibile, trovava nella paura e nella disperazione dei cittadini un terreno fertile per propagarsi. «I benefici psicologici tratti dall’adesione e dalla partecipazione al rumor – osserva Jean-Noel Kapferer – giustificano largamente la scarsa attenzione prestata nel valutarne la plausibilità: il fatto che una voce confermi un sentimento molto radicato, rende meno critici». Non solo: «Il rumor attrae perché fornisce l’occasione per capire meglio il mondo semplificandolo considerevolmente e rintracciandovi un ordine preciso. La capacità del rumor di riunire in uno stesso schema esplicativo un gran numero di fatti è alla base della sua seduttività. La mente umana sembra alla ricerca continua di schemi esplicativi che permettano di collegare tra loro eventi percepiti come frammentari e disordinati». Cosa c’era di più semplice che dare la colpa agli ebrei del manicomio finanziario nella Germania degli anni Venti? E così oggi, quando le responsabilità della crisi economica del vecchio continente sono scaricate, a seconda delle prospettive, sui tedeschi brutti e cattivi o sugli abitanti fannulloni dei paesi del Sud dell’Europa.
Riconsiderare le riflessioni di Jean-Noel Kapferer alla luce dei cambiamenti imposti dall’introduzione dei nuovi media è, dunque, quanto mai opportuno e necessario. E’ possibile tentare di capire come questo fenomeno antico si sia “adattato” al nuovo ambiente digitale? A questo proposito, vorrei soffermarmi, in particolare, su tre aspetti, evidenziati dallo studioso francese, che proprio nella rete conferiscono ai rumors una maggiore pervasività. Innanzitutto, i rumors rispecchiano lo spirito anarchico del web. Come afferma Jean-Noel Kapferer, essi sono «informazioni che il potere non controlla», una «verità alternativa alla versione ufficiale», una «presa di parola spontanea», se non di opposizione, che mette in discussione le autorità. Sono, in altri termini, «un contropotere». Non vale lo stesso per l’informazione in rete, spesso vista come alternativa alle fonti ufficiali e ai media tradizionali e in contrapposizione alle autorità, e proprio per questo più veritiera e credibile? Come osserva Steven Johnson, «l’architettura sociale “nativa” del mondo digitale» è «la rete di pari». «Internet e il web – aggiunge – sono stati costruiti, e sono tuttora mantenuti, dalle reti di pari, cioè reti di scambio e collaborazione aperta, dense, diverse e distribuite». E così, in un mondo in cui i media sono composti da pari oltre che da giornali e telegiornali, «tutto il sistema di diffusione delle notizie sta attraversando una fase di passaggio da un piccolo insieme di organizzazioni gerarchiche a una rete di entità più piccole e differenziate», con «il fallimento o il ridimensionamento di molte vecchie realtà che hanno rappresentato, almeno negli ultimi secoli, la nostra fonte primaria di notizie e riflessioni sui fatti». Ci troviamo così di fronte ad almeno due problemi. Il primo, noto, è quello di separare il grano delle informazioni dal loglio dei rumors. Il secondo rimanda alla strategie e alle modalità tecniche per arginare e smentire le “voci che corrono”, potenzialmente assai dannose per le organizzazioni che ne sono oggetto.
Il secondo aspetto, strettamente legato al primo, riguarda la fiducia come base della vita sociale. Sostiene Jean-Noel Kapferer: «Il rumor non ci giunge mai da persone sconosciute ma, al contrario, da gente a noi vicina». Viene perciò da chiedersi se la credibilità di un’informazione trasmessa da un nostro amico su Facebook o da una persona che seguiamo su Twitter sia data quasi per scontata, proprio perché la fiducia è uno degli elementi che contraddistinguono i social media e che fa abbassare la nostra soglia di attenzione. Non dimentichiamo che la gente riporta un rumor perché ci crede: ecco perché esso «non precede la persuasione» ma «ne è la manifestazione visibile». A ciò si aggiunge – ed è il terzo aspetto – il carattere sociale della verità: è vero ciò che il consenso considera vero. «Parlare – scrive lo studioso francese – significa avviare un processo di discussione, di elaborazione a partire dalla notizia, al fine di pervenire a una definizione condivisa della realtà». In questo senso, «il rumor è un efficace veicolo di coesione sociale: tutte le discussioni che ne derivano esprimono l’opinione del gruppo con il quale ci si identifica». Insomma, «partecipare al rumor è anche un atto di partecipazione al gruppo». Anche se ci illudiamo che le nostre opinioni siano effettivamente personali, molti studi – osserva ancora Jean-Noel Kapferer – indicano che spesso «la conformità al gruppo esercita una influenza considerevole sulle nostre opinioni: un’influenza che, a volte, ci spinge a dire il contrario di ciò che pensiamo e a dubitare delle nostre stesse convinzioni». E qui torniamo a Cass Sunstein che parla di “effetto eco nella stanza”, un meccanismo per cui ognuno risente solo la propria voce, le proprie idee, amplificate da chi è d’accordo e perdendo progressivamente critiche e dissensi. «Il pericolo maggiore dell’eco nella stanza – afferma – è l’estremismo ingiustificato. È assodato il fenomeno dei gruppi di individui che la pensano allo stesso modo e, dopo essersi confrontati tra di loro, finiscono per credere a una versione più radicale ed estrema della loro prima idea col pericolo di arrivare a una situazione in cui la gente demonizza chiunque sia in disaccordo: un rischio reale per le nostre democrazie».

Per saperne di più
Jean-Noel Kapferer, Rumors. I più antichi media del mondo, Armando Editore 2012
Cass R. Sunstein, Voci, gossip e false dicerie. Come si diffondono, perché ci crediamo, come possiamo difenderci, Feltrinelli 2010
Steven Johnson, Un futuro perfetto. Il progresso ai tempi di internet, Codice Edizioni 2013
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